Alla natura è scappata la mano: ci ha fatto il cervello troppo grosso e Leopardi si è fatto venire il tedio di vivere

Solo/Nel disordine/Si può/Credere in Dio (Alda Merini)

Infelici e scontenti. Perché un tram che si chiama desiderio è passato e non l’abbiamo saputo prendere al volo, o non passa, o applichiamo il talento e le energie migliori a farlo dirigere altrove. Perché è scritto nei geni e ha un senso evolutivo, anche se la vita sembra priva di senso, o perché è innegabilmente parte della condizione umana, alla radice dell’essere, l’infelicità, oltre le ragioni contingenti, le controversie e il recupero crediti. Perché fra sicurezza e desiderio, speranza e felicità, vallo a trovare un punto di equilibrio.

Perché siamo infelici lo spiegano in un libro corale cinque tra i maggiori psichiatri e psicoanalisti italiani e un genetista, secondo punti di vista e approdi esistenziali e professionali differenti se non del tutto divergenti (di volta in volta l’approccio è psichiatrico, epistemologico, psicoanalitico, filosofico, genetico, neuropsichiatrico infantile). Ognuno di loro affronta senza rete, da equilibrista appunto, la questione cruciale dell’ontologia umana, l’infelicità, “fondamento dell’architettura psichica dell’uomo”, secondo la convincente definizione di Paolo Crepet. Lo stesso psichiatra ci ricorda che l’infelicità è sempre esistita, la felicità si è sempre cercata ma quella sociale è un’invenzione relativamente recente, nel senso che le carte costituzionali degli stati moderni hanno sancito per la prima volta nella storia umana uno specifico diritto alla felicità dei cittadini quale rivalsa rispetto a una condizione secolare di fame, stenti, miseria, guerra. Diritto che secondo Paolo Crepet, “sembra diventare oggi forma di coazione sociale”, obbligo a esibire una “solarità abbacinata” o anche “un ingualcibile ottimismo, prefigurazione di una società perfetta”. Società perfetta all’apparenza. Guai a palesarsi tediati o tentare di spiegare le ragioni dell’infelicità propria. Si viene liquidati e neutralizzati all’istante con un mazzolino di frasi marchiate al fuoco del buon senso e si è banditi dal consorzio degli edonisti perché pesanti o disfattisti.

Guai però pure a mostrare una felicità nietzschianamente di grande portata, oltre il consueto e la regola comune: è suscettibile di invidia sociale, incomprensione, sospetto. Intanto perché siamo infelici? Perché l’infelicità è un destino necessario e una spinta, un “rinforzo motivazionale”, spiegazione più indigesta di una insalata di rinforzo, ma fondata secondo il genetista Edoardo Boncinelli. L’infelicità ha un ruolo biologico ed evolutivo, ci fa andare avanti.

Tutti sono infelici, chi più e chi meno, chi lo sa e chi non lo sa, chi lo dichiara e chi no, chi lo manifesta e chi lo nega. C’è un’infelicità ancorata a ragioni contingenti, secondo il genetista, che ci accomuna agli animali; invece l’infelicità slegata da qualsiasi motivo, il tedio leopardiano, la noia di vivere, è un’invenzione tutta nostra, capolavoro della mente umana. Per il genetista, inutile cercare metafisiche o un’etica della sofferenza: “il fondamento è volgarmente e rigidamente biologico”. Non esiste il gene della felicità o della infelicità. Esistono le nostre care “molecole consolatorie”, endorfine, encefaline, dopamine, che sono tranquillanti naturali ma non sempre fanno bene il loro lavoro; non in tutti funzionano, si salva chi ne produce in modo veloce ed efficace. La disgrazia dell’essere umano e che ha una “eccedenza di cervello” e che ci fa con questo surplus? Usa la memoria, fa i confronti, misura l’adeguatezza o meno tra obiettivi e risultati, insomma ci rende sempre scontenti, produce un accanimento progettuale, nuovi obiettivi e sempre più ambiziosi, ma ci dà la spinta a vivere, spinta che non ha nessun fondamento razionale. La storia umana va così per Boncinelli. L’unica cosa che è nuova è la medicalizzazione e soprattutto psicologizzazione della infelicità.

Che si fa per essere meno infelici? Ci si autosomministrano “droghe sociali” o svaghi o iniezioni di mondanità: “siamo tutti sulla stessa barca, soffriamo quasi tutti allo stesso livello: chi inventa più rimedi per dimenticarselo vince”. Distante anni luce l’analisi di Eugenio Borgna e Bruno Callieri, agli antipodi del meccanicismo biologico. Borgna e Callieri sono in Italia i padri della psichiatria fenomenologica, scienza contraddittoria perché insieme naturale e umana, interessata a studiare le esperienze interiori, i movimenti dell’anima “impalpabili e fragili”, i contenuti emozionali, al di fuori di categorie organicistiche, cliniche e diagnostiche. Borgna ricorda innanzitutto che la felicità è differente dalla gioia: sono emozioni sorelle ma diverse. La gioia non ha il suo contrario, è disinteressata, “è una emozione quasi disincarnata e metafisica”,vive al di sopra e oltre il tempo. La felicità ha il suo contrario, l’infelicità, è legata a motivazioni psicologiche diverse in ognuno, è fluttuante, camaleontica, instabile, “è una emozione incarnata nella nostra storia di vita”, può essere grande o piccola (Nietzsche), profonda o superficiale. L’infelicità, secondo Borgna, è la leopardiana memoria della felicità perduta. E la felicità perduta non ha niente a che vedere con le immagini presentate alla tv: trattasi di roba epidermica e radicalmente futile. Felicità è ricerca di senso, condivisione della felicità degli altri: “noi, in ogni autentica esperienza emozionale non dovremmo mai essere monadi chiuse in sé: nei propri confini individuali, e nei propri orizzonti di senso”.

Viceversa nella infelicità “che la depressione trascina con sé, si vive un qui-e-ora dominato dal passato e incapace di progettarsi nel futuro”, che si traduce in autoesclusione fino alla misteriosa determinazione al suicidio, come Borgna svela richiamandosi ai destini umani e poetici di Cesare Pavese e Antonia Pozzi. Callieri annota che l’essere umano è sempre in bilico tra tradizione e rinnovamento, tra desiderare il desiderio di lacaniana memoria e desiderare il desiderio dell’altro, “esperienza della non certezza”. L’esistenza come abolizione del desiderio è intollerabile, e il desiderio va connesso con la natura progettuale dell’uomo. “Aspirando alla felicità, molti di noi sono destinati a vagare spaesati, tra sicurezza e desiderio. È qui, in questo inquieto borderland, che il nostro animo si apre alla speranza”. All’opposto c’è la disperazione. “Noi possiamo rifiutarci alla speranza come all’amore… La speranza entra nella situazione ontologica dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo”. L’approdo per Callieri è la speranza e la sua etica oltre i limiti del pensabile.

Vittorino Andreoli traccia una anatomia della infelicità, cercando una sintesi tra biologia e ontologia. Siamo fatti di biologia, è la nostra base, abbiamo un bagaglio genetico tale che due persone nelle stesse identiche condizioni possono tendere alla felicità o alla infelicità. Certo, stante la base biologica, conta il vissuto, i legami, le relazioni che fanno oscillare il pendolo delle emozioni in un senso o nell’altro. L’amore può essere condizione di felicità. L’invidia è l’antinomico. Terzo fattore che può renderci felici o infelici è la società: “ci sono società che dispongono alla felicità, altre alla infelicità. Non solo perché alcuni cittadini sono fatti oggetto di emarginazione o di punizione diretta, ma per l’atmosfera che si respira, per gli scopi che lascia intravedere sulla gestione degli uomini, e quindi del loro significato sociale”, sostiene Andreoli. L’infelicità è una malattia perché induce mal d’essere psichico e perché rende il sistema immunitario ipoattivo, proprio ciò che ci fa ammalare; l’infelicità allora è tutt’altro che “ una decorazione dell’esistenza ma un suo elemento sostanziale”. Tra l’io attuale e la ricerca dell’Io ideale di cui parlava Freud, “c’è la consapevolezza di essere per morire, che è un paradosso, un ossimoro”. Infelicità è saperlo. Ecco perché, al contrario di Callieri, Andreoli non vede speranza alcuna: “Per vivere bisogna essere fuori della realtà, essere dunque come i folli che l’hanno dimenticata per poter sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno”.

Crepet analizza la componente sociale dell’infelicità a partire da una celebre frase di Freud dell’uomo che baratta un po’ di felicità per un po’ di sicurezza. Oggi si vive relativamente sicuri in questa zona privilegiata del mondo, ma non per questo pacificati, miti, sereni, solidali. “Forse Freud peccava di ottimismo”, chiosa Crepet. La felicità richiede attitudine, dedizione, educazione, arte del ben vivere, quasi sconosciuta a noi che soffriamo di “cecità selettiva”. L’ accumulo di beni materiali e l’avidità sono altra cosa, così come la fuga da sé stessi; la malinconia non è da scartare; l’infelicità socialmente è comoda perché persone rassegnate e impotenti si controllano meglio, è un buon alibi per assentarsi o per gravare su familiari o amici, ed è molto redditizia: “interi settori professionali si occupano di infelicità: assistenti sociali, religiosi, psicologi e psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di volontariato, farmacologi; perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi ridursi se, d’un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessasse di esserlo”. Per non parlare dell’immenso mercato farmaceutico che alimenta, della fortuna che ha avuto la cosiddetta pillola della felicità. “La felicità, invece, non ha creato mai posti di lavoro”. L’antidoto a questa infelicità è per Crepet “una felice, dinamica creatività”, insieme alla curiosità, alla gioia di cimentarsi nel nuovo, mettersi in gioco e lasciare il porto sicuro. Infine Maurizio Andolfi, neuropsichiatra infantile, tratta il capitolo dell’infelicità infantile: “Togliere la felicità a un bambino è un danno evolutivo irreparabile. Succede sempre più spesso che i bambini travolti dal vuoto interiore dei genitori e da quello esterno “incontrano fin da piccoli la tristezza esistenziale e che la esprimono ora con forme di ritiro ora con l’iperattività o con deficit dell’attenzione”. È una facile scorciatoia bollare un bambino vivace come iperattivo e somministrargli il tanto diffuso Ritalin o “pillola dell’obbedienza”. Altra cosa sono i tradimenti affettivi dei bambini, le violenze, gli abusi che richiedono altre competenze. Altrimenti la medicina migliore per un bambino, in situazioni di ordinari disturbi e ordinarie nevrosi condivise, è una famiglia che dia scandalo e sfidi l’andazzo generale così da non allevare “bambini consumisti”, secondo le profetiche parole di Pier Paolo Pasolini.

Titolo: Perché siamo infelici
Curatore: Crepet P.
Editore: Einaudi
Dat: 2010, 184 pp., 15,50

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