Perizia e verità: la difficile convivenza tra uomini della legge e uomini della comprensione

In certo modo ho il privilegio di vedere i fantasmi della notte non soltanto nello stato di inermità e beato abbandono del sonno, ma al tempo stesso incontrandoli nella realtà, quando ho tutta la forza della veglia e una tranquilla capacità di giudicare. (La tana, Franz Kafka)

In questa situazione Kafka si contorcerebbe molto. Ma trasformerebbe la mostruosità del mondo in armonia narrativa. O dispiegherebbe le nere ali del corvo e se ne fuggirebbe nell’altrove. Situazione ambivalente che  deve trovare una sintesi: il processo lo impone. C’è il mondo della certezza, deontologicamente obbligatoria, e quello della possibilità deontologicamente auspicabile nonché praticabile,  ma anche dell’impossibilità, dell’indistinzione, della nebulosità, se non del fallimento cognitivo; il mondo dell’assolutezza normativa e quello del probabile e della probabilità; il mondo della logica ferrea e del rigoroso criterio dicotomico nell’accertamento dei fatti e quello delle sfumature innumerevoli, della declinazione empatica dell’umano anche nei risvolti più brutali e nei casi più gravi di patologia; il mondo dell’oggettività e quello della soggettività, tanto dilagante quanto sfilacciata; infine il mondo obbligatoriamente circoscritto e perciò assoluto della legge e quello sconfinato della psicologia che si occupa dell’infinita, inesauribile incognita che è la mente umana. Magistrati e professionisti della psiche: due mondi, esistenze parallele più che coesistenze, non sempre pacificate, nelle aule di giustizia impegnate in delicatissime situazioni processuali che riguardano presunti abusi sui minori, abusi reali, problematiche di affidamenti e altro. Alterità che devono cercare una integrazione, arrivare a una convivenza che riesca a tenere insieme scienza giuridica e scienza psicologica. Il recente convegno di psicologia giuridica dal titolo stringente “Perizia e verità”, (organizzato dall’associazione  italiana psicologia giuridica e dal suo presidente, Paolo Capri), che pure ha evidenziato le differenze, le distanze, le reciproche diffidenze nel gioco delle parti, aveva l’obiettivo di trovare un incastro possibile. Un linguaggio comune? Tutto sta a trovare lessico e culture comuni, a saper dosare poteri che ciascuna delle due professioni ha, spesso rivendica.

Apre i lavori il presidente emerito della Repubblica e senatore a vita, Oscar Luigi Scalfaro, tratteggiando ricordi personali della sua vita da magistrato, in tempi in cui l’autorità giudiziaria non aveva stringenti problemi di “convivenza” con periti o consulenti, come oggi.

Tommaso Sciascia, presidente del tribunale di Frosinone, evidenzia le distanze: “Anche il perito nel suo settore tecnico è un giudice. Ma nel caso della consulenza psicologica, il lavoro si complica, rischia di interferire o duplicare l’attività che spetta al giudice. E interferisce con l’attività del giudice  soprattutto se entrano attività di valutazione non presenti prima”. Certo, nel procedimento civile, garanzia è il principio del contraddittorio: “senza aver sentito le parti non si può far niente”.  E Claudio Cottatellucci, magistrato del tribunale per i minori di Roma, si sofferma “sull’antagonismo tra sapere tecnico e libero convincimento del magistrato dove il libero convincimento non è ovviamente un processo mentale individuale e indimostrabile del magistrato che ha sempre l’obbligo di rendere conto delle decisioni, obbligo che deriva dal dettato costituzionale”. Poi una microstoria della figura del perito: “Il codice del 1930 rimetteva alla determinazione del giudice l’uso di un perito o no. Già nella prima fase repubblicana non si dice più il giudice può disporre di un perito, ma il giudice dispone, il che indica un obbligo preciso, e il modello di onniscienza giuridica viene limitato”. Marilena Mazzolini, psicoterapeuta dell’età evolutiva e perito del tribunale di Roma, viceversa avvisa che il pericolo di scambiarsi le parti è reciproco se “il giudice diventa troppo psicologo e lo psicologo troppo giudice”. Antidoto: “Come nel gioco degli scarabocchi niente resta uguale a prima. Il perito e il giudice sono coinvolti in un gioco di reciproca trasformazione: ognuno cede qualcosa di sé e ne acquisisce di nuova”. Certo è che “tra tribunale e bambino deve esserci sempre uno psicoanalista dell’età evolutiva, altrimenti, se il giudice lo ascolta senza un tramite è come un’operazione chirurgica senza anestesia”.

Maria Monteleone, magistrato di Cassazione, sostituto procuratore della Repubblica, procura di Roma, ricorda che “il nostro sistema penale assimila il consulente a un testimone e va tenuto presente nella sua scelta e individuazione”. È bene sapere, inoltre, che nel 2009 una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione “per la prima volta ha dato valore ai disturbi di personalità nel processo penale, purché di consistenza, intensità, gravità tale da incidere per cui il reato è provocato dal disturbo”. Il perito psicologico, dunque, occorre e come, ma “il magistrato non deve delegare al perito, il perito non deve sostituirsi al giudice. Quando scelgo il perito, so che scelgo il mio testimone, il mio consulente diventa un mio testimone d’accusa”. Per Paolo Capri, presidente Aipg, “noi periti siamo gli occhiali del giudice, una sua estensione sensoriale”. Attenzione ai miopi o ai presbiti.

Ugo Fornari, neuropsichiatra, professore ordinario di psicopatologia forense a Torino, è un luminare illuminato e molto schietto: “Il nostro compito è inserire la verità clinica nell’iter processuale, nel momento in cui il giudice o l’avvocato chiede il nostro intervento. Lui non deve ficcare il naso nella nostra cartella clinica e noi nella sentenza. Dall’incontro di queste due verità deve o dovrebbe venire fuori una composizione”. Quali verità? La verità processuale e la verità clinica. “Sono reduce dal processo Franzoni – racconta Fornari – e ho visto giudici perplessi. Verità scientifiche non esistono, la scienza è cangiante, perciò l’attrezzatura fondamentale dello psicologo-psichiatra è un’attrezzatura clinica, ovvero la formazione permanente a vita. Psicologia e psichiatria non sono scienza, ma discipline applicate al mistero che è l’essere umano”. E i rapporti col giudice? “Non è vero che devo qualcosa al datore di lavoro che è il giudice – incalza Fornari – devo qualcosa al periziando. Ho l’obbligo della verità del rispetto della privacy, del rispetto scientifico che significa seguire una certa metodologia che dia garanzie al giudice. L’esame corretto è quando il giudice arriva a queste domande: a quali conclusioni è arrivato? Come ci è arrivato? Perciò sovrana è la clinica, fondamentale è la curiosità per cercare di capire che tipo di funzionamento patologico è avvenuto in una certa situazione. L’infermità di mente non è uno stato di servizio permanente della persona” .

Anita La Notte, psicoterapeuta del consiglio direttivo Aipg, ribadisce “la sacralità del metodo clinico”. Indica la strada, muovendosi nel campo del possibile: “non esiste il metodo giusto, esiste il metodo utile; non esiste il metodo scientifico esiste il buono psicologo. Senza una relazione empatica, viene fuori una perizia perversa”.  Empatia? Cosa è? “L’empatia non è fusione, confusione, è capacità di stare dentro e poi tirarsi fuori. Nel rapporto perito/ periziando, oltre al metodo, bisogna attingere ai propri sentimenti per poi raggiungere una neutralità che non sia distanza ma un tendere verso una relazione pienamente consapevole. Si pensi alle perizie su un bambino in età prescolare”. Dovremmo diventare un po’ tutti periti, in vita. O avvicinarci a questo metodo empatico. Certo ai periti veri occorrono analisi e formazione clinica, quindi forense, lo ribadisce Fornari, bisogna essere tecnici ma solo il tecnicismo ti rende fermo”. Come nella vita. E poi non esiste una modalità unica e valida per tutti di fare consulenza. Le cose si complicano. Anche perché, alla conta finale, ci sono almeno tre verità in gioco: la verità processuale, quella clinica, quella sostanziale, che non sa neanche il reo. Che non sa nessuno.

Come sono le persone che valutiamo? Per Ugo Sabatello, neuropsichiatra infantile e psicoanalista “bisogna togliersi un po’ di curiosità e un po’ di illusioni”. Sabatello avverte che “con un’etichetta nosografica non si descrive una persona. Le persone che commettono reati non sono tutte uguali, tanto più gli adolescenti. Da metà del secolo il paziente è stato visto come un televisore a cui si è rotto un fusibile. Si è perso il significato della patologia, il significato del sintomo che, specie nei minori non si può dimenticare”. Per esempio, il caso dello stupro di gruppo di Montalto di Castro: “8 test, 8 diagnosi, 8 diverse personalità. C’è una variabilità clinica enorme, dalla psicosi, al disturbo di personalità, all’assenza di psicopatologia. Certo il gruppo sancisce l’alleanza maschile”.

Non è un caso che abbia chiuso il convegno, Bruno Callieri, presidente onorario della  Società italiana di psicopatologia, docente di psichiatria, perito di Rota romana dal 1957. Più che naturale che da un approdo fenomenologico ed antropologico, il suo, dopo lunga e partecipe navigazione, si abbia una visione che suona previsione del divenire al di là della confusione epocale. Più che naturale che dal suo punto di vista si guardi alla dimensione giuridica, talvolta arida o anacronistica, con una chiave di lettura umanizzante e perciò lirica. “Sono tematiche che nel corso dei decenni si sono venute stratificando nel mio animo in un percorso esistenziale denso e vigile. C’è stato un profondo mutamento generazionale nella trasmissione dei problemi da parte di giudici e psichiatri”. Il rapporto tra dimensione psicopatologica e concetti giuridici, è diventato “come una cerniera arrugginita”. Occorre sintonizzarsi su una “cultura in transito che ci ha resi sempre più sensibili ai concetti di intenzionalità, conscia e inconscia, e della dialogicità, l’incontro con gli altri che oltrepassa i confini delle categorie solite”. Che accade, allora? “Il discorso normativo perde la sua univocità di significato e di senso, ci affacciamo su questa mondo divenuto inquieto, polimorfo. Si valuta solo la psicopatologia del singolo, ma il singolo è un’astrazione, persino un errore di concetto, da quando nasce è in contesto duale, per cui esserci è essere con. Da ciò tutte le ricadute giuridiche dei comportamenti psicopatologici”. “Il giudice dietro le leggi scritte deve saper leggere le tematiche di persone in carne e ossa, che significa almeno dualità, altrimenti non giudichi un essere ma un fantasma,. Dietro ogni orizzonte normativo c’è l’orizzonte etico ed esistenziale che è ineliminabile e ci riguarda tutti. Altrimenti il rischio è grosso, che ognuno si isoli nel proprio ambito, tu il giudice, io il perito”. Alla fine Callieri accetta ma a fatica e lo dichiara l’integrazione delle due figure, il colloquio “tra l’uomo del diritto e l’uomo della comprensione”, come lo chiama lui. E si vede che questa conciliazione gli costa  “perché il ruolo del perito non si incontra con i contenitori categoriali della normativa”. Come dire svecchiate la cultura giuridica, apritevi all’umano, poi ci incontriamo: “Sia il perito che il giudice ben sappiano che la relazione è il fondamento. Ci dobbiamo occupare di sofferenze in carne e ossa. Il problema etico-deontologico, non è più la responsabilità e basta, ma la responsabilità esistenziale che rende possibile senza alcuna ambiguità questo colloquio”. Non basta. “La psichiatria se non ha l’empatia, oggettivizza l’altro e ha tradito il proprio compito. Non solo responsabilità esistenziale, allora, ma coesistenziale e transculturale perché ci muoviamo nell’ambito di culture diverse”. Il futuro è scritto nella “gaia scienza” di Callieri: giudici e periti traboccanti di responsabilità esistenziali, coesistenziali, ma traboccanti anche di dotazioni transculturali. Fosse così, verrebbe voglia di dare torto a Kafka e stare a processo.