Quando beatmaker è una definizione riduttiva

Rieccomi. Smaltite le mangiate natalizie, i cammelli della Befana – che poi tecnicamente sarebbero dei Re Magi – e dopo qualche giorno di troppo di pausa, comincio il 2011 con una nuova recensione, di un album che, passatemi l’indolenza, del 2011 non è.

Per essere una landa strappata alle acque con un paio di dighe, l’Olanda, sul fronte hip-hop, ha delle carte notevoli da giocare. Carte che rispondono a nomi come Pete Philly & Perquisite, rapper il primo, produttore e musicista l’altro, che nel corso degli anni hanno regalato un paio di album contemporaneamente hip-hop ed eclettici e che hanno contribuito notevolmente a mettere il nome dell’Olanda sulla mappa della black music mondiale.

Pesanti influenze jazz, spruzzatine di violoncelli, rap ispirato e con argomenti fuori dal banale, erano la ricetta di un duo che ha avuto sempre cose da dire.
Per questo la fine del progetto a due e le conseguenti carriere soliste di Pete Philly e Perquisite rischiano di lasciare un po’ l’amaro in bocca, almeno in un primo momento.

L’Across di Perquisite è un album strano, che richiama le cose fatte in precedenza, questo è ovvio, ma che porta anche diversi cambiamenti alla formula, dirigendosi verso un genere che è un po’ r&b sbiancato e un po’ pop sofisticato e avvalendosi della collaborazione di una slavina di nomi piuttosto sconosciuti, almeno a me, da Urita&Sanguita a Jenny Lane.

Proprio loro aprono l’album, con i singoli Set Me Free e Dreams of Gold, per lasciare poi spazio a una Bottomline che continuo a non capire.
Prima due brani piuttosto groovy, poi una cavalcata di ottoni che centra poco con quanto c’è stato prima e con le tracce che seguono, bene o male assestate su un mood piuttosto malinconico, quando non tendente al tragico, vedi Dead Souls.
Non capisco neanche i singoli a inizio album, non l’ho mai capito, ma questa è solo una fissazione personale a cui potete senza dubbio non fare caso.

Che poi capiamoci, non è che Across sia un brutto album, tutt’altro. Ci sono un paio di tracce che metto in replay più che volentieri, su tutte Machine, Too Late e Silence. Diciamo che non lo capisco. Diciamo pure che forse è un progetto che mette troppa carne al fuoco, rischiando di perdere l’ascoltatore per strada e che un paio di skip per volta non riesco a non farli.

Sul versante dei lati positivi, Perquisite sicuramente dimostra di essere un talento piuttosto malleabile e di poter dare molto più di quello che ha dato negli anni precedenti, passando da una creatività relegata nei confini per forza di cose limitati del mondo hip-hop, a un eclettismo decisamente più libero.
Morale della favola. Se l’intento di Across era dimostrare qualcosa, per esempio che, oltre a essere un ottimo beatmaker, Perquisite è un artista completo, con una visione chiara sui suoi progetti ecc. ecc., abbiamo davanti un disco riuscito. Rimane qualcosa da ridire sul fronte della coerenza stilistica e su un paio di scelte musicali, ma qualche ascolto potete sicuramente concederglielo.

Aggiungo un mezzo punto alla valutazione per la genialità dei video, semplicissimi e assolutamente riusciti. Ma a ripensarci lo tolgo per la cover, che nell’intento di essere originale, finisce per essere un po’ troppo simile al depliant di un’agenzia di viaggi.