La Pietà non si addice agli storpi, agli orfani, ai mutilati, agli ex puri di cuore

Ho preso posto al cinema curioso di vedere come stesse Kim Ki-duk: non era solo un interesse artistico, dopo Dream del 2008, e la quasi morte di un’attrice sul set, pare avesse scelto l’eremitaggio fra i monti, fosse entrato in depressione e la sua proverbiale vena creativa – 15 film in 13 anni da Crocodile (1996) a Dream – si fosse inaridita. Di tutto questo ci ha informato lo stesso Kim Ki-duk nella non indispensabile docufiction Arirang (2011), che aveva interrotto, insieme ad un altro documentario (Amen), il silenzio realizzativo degli ultimi quattro anni. Poi il regista coreano è sbarcato a Venezia, ha vinto il Leone d’oro fra qualche polemica nazionalista – piuttosto sterile, dobbiamo dire, dopo aver visto Bella addormentata di Bellocchio – ed è approdato nelle sale con questo nuovo film, Pietà. Le tre studentesse Erasmus che sedevano due file più avanti però, devono aver frainteso il titolo, perché è bastato che passassero pochi minuti e Kang-do, il trentenne protagonista che di mestiere fa lo strozzino, stritolasse in una pressa la mano di un debitore insolvente, per farle fuggire dal cinema con una certa sollecitudine. No, non sarebbe stata una visione confortevole. In particolare, nella prima ora non c’è forse una sola sequenza che non urti in maniera deliberata i nervi dello spettatore.

Kang-do vive solo in un palazzo negli squallidi sobborghi di Seoul, la madre l’ha abbandonato quand’era piccolo e il suo sviluppo sembra essersi arrestato a quello di un ragazzino prima della pubertà – un ragazzino che conosce solo il linguaggio della violenza e lo applica in modo scientifico nella sua attività di riscossione crediti. I suoi clienti sono poveri operai meccanici rinchiusi in cubicoli-officine dove non entra mai il sole, si indebitano con interessi del mille percento che non potranno mai pagare: l’unica soluzione è mutilarli con i loro stessi strumenti di lavoro o renderli sciancati facendoli volare dal giusto* piano di un palazzo disabitato, in modo da potersi rivalere sull’assicurazione (* È necessaria un’altezza che provochi un danno adeguato senza ucciderli). Tutto sommato la violenza è una cosa semplice e i bambini giocano sempre a fare la lotta, se poi cresci e devi applicare la violenza per pagare l’affitto, inevitabilmente le ripercussioni sociali sono più durature. Kang-do è un ragazzino di trent’anni che si masturba tra le lenzuola, dorme vestito, ed esce senza lavarsi, infierisce su un’enigmatica figura di donna (apostrofata ripetutamente puttana), entrata nella sua vita all’improvviso presentandosi come la madre che l’aveva abbandonato. Intendiamoci, prima di guadagnarsi la fiducia di Kang-do, dovrà superare alcune prove d’iniziazione come ingoiare un dito mozzato del ragazzo e subirne lo stupro (amplificato dalla componente incestuosa – sempre ammesso che la donna fosse davvero sua madre), ma una volta convinto, il nostro Bad boy (per riferirsi al più riuscito film di Kim Ki-duk del 2001), vedrà repentinamente sciogliersi il suo cuore in inverno, vacillare nella crudeltà sul lavoro, riscoprire i sentimenti sopiti di affetto e di appartenenza. Dal fondo della sala si leva qualche avventato sospiro di sollievo: la seconda parte del film infatti, se vede ridursi la violenza esplicita, amplifica di molto la violenza psicologica, e l’agnizione dell’antieroe è meno edipica di quanto si potesse immaginare.

Nel frattempo, il ragazzo seduto dietro di me continuava imperterrito a tessere le lodi di Kim Ki-duk con la madre (ammesso che fosse la madre…): «e poi dipinge, è un artista completo, sa fare tutto», «la sua visione filmica, così capace di trasfigurare la materia in simbolo, non ha eguali nella cinematografia contemporanea», e via discorrendo. Tra la fuga preventiva delle studentesse Erasmus e gli afflati cinefili della giovinezza, si andava intanto formando in me l’idea che la verità, ancora una volta, si trovasse nel mezzo, sia riguardo al film in sé che al rapporto tra il film e la produzione precedente del regista coreano. Pietà è una rigorosa parabola sull’assenza, sulla mancanza di spiritualità e di sentimenti nella società neoliberista del capitalismo spinto: gli uomini valgono quanto producono e come tutte le cose hanno un prezzo, gli uomini non si limitano a lavorare con le macchine (strumento di lavoro e di mutilazione in Pietà), gli uomini sono le macchine. L’allegoria del film è chiusa ad ogni altra interpretazione, è lineare, efficace, esplicita. Fin troppo, forse. Perché se è vero che in una parabola troviamo figure piuttosto che personaggi e che l’intreccio si piega alla dimostrazione della tesi di fondo, d’altra parte Kim Ki-duk eccede nell’eccessivo schematismo dello sviluppo drammaturgico (il cambiamento di Kang-do dopo l’incontro con la madre; la circolarità nella ricerca delle sue vittime verso la fine), nell’uso didascalico dei dialoghi («Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le cose»), nella tendenza ribadita a manipolare lo spettatore (l’abituale contrasto – vedi La samaritana (2004) – tra la raffigurazione iperrealista della violenza e il fuoricampo che esclude il  trauma finale, ma soprattutto lo spietato – è il caso di dirlo – disegno di vendetta che, nella seconda parte, andrà a riscrivere l’interpretazione del film). Eppure Pietà divide, suscita contrasti, non lascia indifferenti, in altre parole è vivo. Fuori dal cinema il pubblico ne porta ancora i segni addosso, a differenza di quanto accade dopo i tanti film usa e getta, che scivolano via insieme ai titoli di coda. 

Girando Pietà, Kim Ki-duk ha cercato di ritrovare l’impatto visivo, il taglio di ripresa istintuale e l’ambientazione di degrado urbano delle prime opere (Crocodile; Bad guy); ha abbandonato i colori tenui e le trame evanescenti del “periodo calligrafico” (Ferro 3; L’arco); ha ripreso possesso della materia filmata organizzandola secondo un plot strutturato e compatto, a dimostrazione di un progresso tangibile rispetto agli ultimi involuti lavori (Soffio; Dream) che avevano preceduto la crisi documentata da Arirang.

Tra i manifesti che hanno accompagnato il film, ce n’è uno che vede i due attori principali ricalcare la posa della Pietà di Michelangelo, seppure in una versione più enfatica e scollacciata. Si può supporre però che l’intento fosse ironico, visto che l’intera parabola del film tende a dimostrare come la violenza e il dolore abbruttiscano l’uomo, privandolo della capacità di provare e manifestare sentimenti positivi. Risulta ancora più evidente, per noi mediterranei cresciuti nel culto della madre accogliente, sottomessa e dispensatrice di vita, nel momento in cui ci troviamo di fronte a una donna che si trasforma in angelo della vendetta e sceglie perfino la morte, pur di riscattare il dolore che le era stato inferto sulla carne del suo vero figlio. Viene ribadito ancora dalla scena in cui il figlio di una delle vittime di Kang-do lo colpisce alla schiena con una matita: anche un bambino perde l’innocenza quando si abitua a inalare il male. Gli esseri umani hanno davvero qualcosa in comune con le macchine: possono subire guasti che non si riparano, sia nell’anima che nel corpo (due termini che fra l’altro, per chi scrive, stanno ad indicare esattamente la stessa cosa).

Il pensiero cristiano interpreta il dolore in modo opposto, lo esalta come una chiave per aprire le porte della vera vita, dopo che avremo lasciato infine questa valle di lacrime. Il pensiero cristiano rimuove la morte. Per questo Karl Jaspers può dire che «la redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica. La possibilità che ha il singolo di salvarsi distrugge il senso tragico di una rovina senza tempo. Ecco perché non esiste una vera e propria tragedia cristiana, (…) [dal momento che viene] risolta a priori nella possibilità di raggiungere la salvezza attraverso la grazia. Il peccato si trasforma in felix culpa che rende possibile la redenzione». Non sempre è stato così: il pensiero greco e la concezione ciclica del tempo permettevano all’uomo di venire a patti con l’idea di limite, e di comprendere la morte dentro la vita. Certo, non si trattava di un cammino indolore – basta farsi tornare in mente l’Orestea di Eschilo – ma è anche vero che spesso la bellezza non è dolce né consolatoria, anzi, quasi il contrario, e la vera bellezza è sempre un po’ inquietante. Come in modo parziale avviene guardando Pietà di Kim Ki-duk.

Pietà – Corea del sud, 2012
di Kim Ki-duk
con Lee Jung-Jin, Jo Min-Su
Good Films – 104 min.

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