Dancing with the common people

Primavera Sound, erano anni che volevo venirci e finalmente ci sono riuscito.  Aspettative altissime alla vigilia della partenza. Continuavo a settare e ri-settare il mio personale calendario, decidendo di andare a vedere questo o quello, a seconda dell’umore o delle canzoni che passavano sul lettore. Imprecavo per l’impossibilità di vedere Sufjan Stevens causa motivi organizzativi discutibili: il cantautore americano avrebbe suonato nell’unico spazio chiuso del festival, dove i posti erano limitati. Quindi per prendervi parte sarebbe stato necessario a) iscriversi a tale fantomatico Primavera Portal e lasciare dieci euro di cauzione b) lasciare ulteriori due euro per un biglietto aggiuntivo c) avere lo straordinario privilegio di essere estratto tra i migliaia di fortunati partecipanti per goderti lo show. Francamente un po’ troppo per me e il mio ignavo snobbismo. Opto per la scelta più classica e cara all’italiano: rinunciare e quindi lamentarmi. Tutto molto scontato direi. Allora scrivo e riscrivo, sottolineo e cancello, cesello e cerco di incastrare tutti gli orari senza che nessun’altra band che voglia vedere sia sacrificata: un lavoro di preparazione immane perché poi quando sarò lì mi renderò conto che sarà tutto inutile sia perché non avevo tenuto conto della planimetria del forum, sia perché insomma i limiti umani esistono e sono tangibili e che più di sette concerti (ma è davvero il massimo, l’acme raggiungibile solo se decidete di sacrificare gli altri due giorni del festival a trascinarvi da uno scalino a un altro) non è proprio possibile seguire. Sì perché poi tra una performance e un’altra c’è da spostarsi, da prendere da bere, da andare in bagno. Alla fine ne viene fuori che il tempo è risicatissimo e in tre giorni e una serata di festival io e la mia compagnia (formata da altri due baldi giovani) non siamo riusciti a scambiare una chiacchiera con nessuno (tranne che con un trio di inglesi durante il concerto di Kurt Vile per chiedergli il risultato della finale di Champions). Quindi sfacchinata sovrumana? Sì. Ci torneresti? Dieci, cento, mille volte perché un festival così ti regala, davvero non voglio fare lo sdolcinato o il tipo lirico, un caleidoscopio di emozioni che difficilmente riesci a mettere sulla pagina, per iscritto. E questo nonostante le falle dell’organizzazione siano state enormi: una per tutte (oltre al concerto di Sufjan) il sistema di pagamento al bar. Sulla card identificativa del festival si sarebbero dovuti caricare i soldi e poi attraverso un giuoco di codici a barre il pagamento avrebbe dovuto essere agevole e veloce. Peccato però che il sistema se la sera del mercoledì aveva funzionato (erano attivi solo due bar al Poble Espanyol) l’indomani, all’apertura del Parc del Forum quando i bar attivi avrebbero dovuto essere una decina ecco che il sistema crasha nel peggiore dei modi. Risultato: solo due bar aperti, file inimmaginabili per prendere da bere ma, allo stesso tempo, file inimmaginabili per caricare la carta.

FileE già qui vi erano tutti gli ingredienti per una simpatica sommossa popolare cosa che, invece, non è avvenuta. Perché la gente, e questo forse – oltre ai concerti – è quello che mi rimarrà più impresso del festival, era tranquilla, rilassata. Nessuno si è lamentato, nessuno aveva quello sguardo rancoroso e complice di chi vuole esternare il proprio disappunto. No, la gente si trovava lì per divertirsi e niente poteva distoglierla dal suo intento. E così anche la voglia di litigare si dissolveva nell’aria perché se quello accanto a te in fila era cool, non potevi metterti a sbraitare, cosa ti conveniva lamentarti? Eri nella stessa medesima barca degli altri. E allora scorta di birre (o acqua…) e via a sentire i concerti ché quella era la cosa importante: la musica.

E parliamo di musica allora che sennò, come al solito, rischio di dilungarmi troppo (già fatto mi sa).  Gli highlight dunque, meglio iniziare con le cose che mi sono piaciute no?

  • Avi Buffalo: la band californiana capitanata dal giovane guitar hero Avi Zahner-Isenberg si impone sul San Miguel Stage con una performance piena e rock, zeppa di pezzi nuovi ma che trova il suo apice nella splendida Remember Last Time. Da antologia le espressioni alla Angus Young di Avi, great stuff.
  • Kurt Vile: il cantautore americano si trova a proprio agio sul palco Jager-Vice, raccolto ma con una audience di tutto rispetto (un sacco di band sono lì a vedere il songwriter capellone). Il set è intenso e raffinato esattamente come gli ultimi suoi lavori. Go on Kurt!
  • Ducktails sei di pomeriggio, tre birre ciascuno ai nostri piedi, il mare all’orizzonte e Matt Mondanile che imbraccia la chitarra. Cosa pretendere di più? Che a fargli da backing band ci siano i Big Troubles a irrobustirgli il suono a far diventare le canzoni di Ducktails meno dreamy e più Beach Boys.
  • Mogwai: be’ questi ragazzi di Glasgow ci sanno ancora fare. Nonostante il loro ultimo disco non sia folgorante come le prime opere e il post-rock sembri una tendenza così lontana nel tempo i cinque (quasi tutti calvi ormai) scozzesi ci hanno regalato un set rumoroso e vigoroso con una scaletta che ha ben intrecciato nuove produzioni e vecchi classici. Splendide Hunted by a Freak e Auto Rock.
  • Flaming Lips: che dire? Loro dal vivo sono sempre uno spettacolo e per me era la prima volta in assoluto. Palloncini, nastrini, Coyne che si muove in cima alla gente dentro una palla gigante, che dialoga con il pubblico ogni volta che può incitandolo a partecipare e  a essere protagonista della festa. Un carnevale durato un’ora e mezza, super concerto.
  • The Walkmen: salgono sul palco elegantissimi e alla stessa maniera eseguono tutti i pezzi. Un incrocio tra National e R.E.M, i Walkmen non hanno nulla di modaiolo ma solo un immenso talento che sul palco dimostrano di possedere senza eccessivi fronzoli. È la musica quella che conta e questo la band di New York ci dona. Regali e magnetici. Da rivedere altre mille volte.
  • Deerhunter: sono quattro ma alzano un muro di suono spaventoso, tirano le canzoni per quarti d’ora interi regalando intrecci di chitarre ipnotici e coinvolgenti. Sul palco sono pressocché immobili ma le canzoni parlano quasi più che su disco. C’è da aspettarsi ancora grandi cose da loro.
  • The National: io con loro un po’ ci avevo litigato. Quando tempo fa avevano suonato a Milano ero andato a sentirli con tutte le buone intenzioni possibili rimanendone però molto deluso: set fiacco e senza carattere, la band sembrava svuotata senza cuore. Ma poi qui a Barcellona, sul palco Llevant ecco che i National fanno sfoggio della loro migliore forma, quella abituale a quanto pare, regalando al pubblico (che però, colpevolmente, conosceva solo l’ultimo disco) un concerto grandioso. Matt e soci non ne sbagliano una, il suono è pieno e pomposo e ad aggiungere fuoco al fuoco ecco che sale anche Sufjan Stevens sul palco anche se solo per donare le backing vocals a un paio di canzoni. Band immensa, scusate se ho dubitato di voi, davvero, perdonatemi.
  • Pulp: ed eccoci al concerto da me più atteso. Vi posso solo dire che me lo sono visto da solo in mezzo a un milione di persone e che nonostante non conoscessi nessuno con cui condividere l’emozione è stato comunque qualcosa di sublime che per sempre mi rimarrà scolpito nella memoria. Jarvis Cocker non è un frontman , è un superfrontman e, nonostante l’età (il ragazzo ha quasi cinquant’anni) salta e balla ancora come un grillo.  La sua voce è in una forma strepitosa, per non parlare dello stile, di quello ne ha sempre avute scorte illimitate. Volete gli highlight? Be’ Disco 2000 e Common People ovviamente anche se personalmente alzo il pollice su Underwear e This is hardcore. Quasi piango a pensare che potrei non vederli più.

http://www.youtube.com/p/7CB70EFF95D6B79F?hl=it_IT&fs=1

Quindi un festival con sole note positive? No davvero, non tutte le ciambelle son riuscite col buco. E quali allora le performance più deludenti? Be’ devo dire che gli Yuck non convincono molto outdoor, molto meglio al chiuso. Gli Emeralds mi sono parsi abbastanza effimeri, davvero poco incisivi mentre, e qui mi piange il cuore a dirlo, sia Pj Harvey che Belle & Sebastian mi sono apparsi scarichi e mosci rispetto agli altri artisti del festival che invece si lasciavano contagiare dal bel clima e dalla quantità di gente (veramente immane) giunta a vederli.

Carini invece i Cults. Lei spacca mentre il suo fidanzatino chitarrista è del tutto inutile. Più che suonare gli piace mettersi i capelli dietro le orecchie. Comunque le canzoni sono buone e finiranno lassù, in alto in alto, nella scala dell’hype (ma tanto già lo sono).

Anche i Fleet Foxes suonano davvero bene, non una nota fuori posto, le melodie vocali che si intrecciano perfettamente, davvero non una sbavatura. Purtroppo però non mi levo dalla testa che siano un po’ i Gipsy Kings dell’indie e la loro musica non riesco ad apprezzarla fino in fondo. Peccato.

Chi invece non capirò mai, ma qui ne faccio un punto d’orgoglio, sono gli Animal Collective. Ci ho provato, ancora una volta, ma davvero non mi dicono niente con questi suoni artefatti, le melodie non melodie, le rarefazioni elettro. Basta, m’avete rotto definitivamente. E questo vale anche per te, Panda Bear!

Ah, quasi me ne dimenticavo (e questa la dice lunga), Caribou, c’era anche Caribou. Noi lo abbiamo visto mercoledì e devo dire che sì fa ballare, e molto, ma che dal vivo non è niente di trascendentale. Odessa va bene lo stesso se gira sul piatto di un dj qualunque.

E finalmente uscimmo a riveder le stelle.

Domenica mattina alle 5 finisce il nostro festival. Distrutti ce ne torniamo a casa, recuperiamo i bagagli e ci dirigiamo verso l’aeroporto. Siamo felici, lo vedo sul volto di chi mi sta vicino. Una strana calma si è impossessata di noi, stiamo per tornare alle nostre vite di sempre, al tran tran quotidiano fatto di lavoro, studio e quant’altro. Alle città d’appartenenza, tutte diverse, Milano, Siena, Parigi. Stiamo per tornare insomma, è finita, siamo stati bene, non abbiamo conosciuto nessuno ma il bagno di folla, di questa folla che voleva divertirsi e basta, non so, è come se mi avesse reso più fiducioso nei confronti dell’umanità, carico di pensieri positivi. E come a voler seguire il trend dei miei pensieri Milano il giorno dopo si riscopre arancione, e anche qui un bagno di folla a festeggiare il nuovo corso che sembra gli eventi stiano prendendo.

Non mi sono mai sentito così poco solo. E tutto questo grazie a un festival di musica indie. Grazie Primavera Sound, grazie Arno e Luigi.

2 thoughts on “Dancing with the common people

  • Giugno 24, 2011 alle 9:15 pm
    Permalink

    questo è stato il mio secondo anno e guarda, puoi discutere su tutto tranne che sull’organizzazione, ineccepibile senza possibilità alcuna di dire il contrario. il sistema delle bevande purtroppo è stato l’unico punto a sfavore ma è capitato eh, in fondo sono cavilli ma di qui a dover essere riottosi perchè purtroppo crasha il sistema anche no. un festival fatto di migliaia di persone, in uno spazio così grande, con tanti gruppi e così organizzato non lo si trova da nessuna parte. penso sia uno degli eventi musicali più belli di ogni anno, cuore e musica.

  • Giugno 28, 2011 alle 4:39 pm
    Permalink

    Ciao Valentina,
    d’accordo con te, festival bellissimo e penso che dall’articolo venga fuori. O mi sbaglio? Quello delle bevande è stato purtroppo un epic fail, non roba da poco, ma come ho scritto arrabbiarsi era impossibile, il clima e la gente meravigliosi
    Alla prossima!

    c.

I Commenti sono chiusi.