Roberto Rossellini: cinema e santità

Ci tengo ad essere chiaro fin dal principio così che possiate farvi un’idea di cosa dovete aspettarvi: chi scrive è fan di Roberto Rossellini come le adolescenti lo sono, chessò, della saga di Twilight. E ne ha ben donde. Qualcuno (Otto Preminger) ha affermato che la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta. Sarà forse stata una boutade, un’esagerazione, ma personalmente devo ammettere di trovarmi d’accordo, seppur non al 100%.

Sì perché Rossellini ha inventato un modo del tutto nuovo di utilizzare il cinema in particolare e lo strumento audiovisivo in generale, un cinema che si appoggiava su un principio cardine da cui non poteva prescindere: l’onestà intellettuale, la sincerità. Rossellini cercava di fare qualcosa di importante, che, anzi, lui riteneva necessaria: mirava a ripulire il suo racconto da ogni traccia di spettacolarizzazione, dai furbi espedienti narrativi, dalla retorica, per riavvicinarlo alla semplicità e ai ritmi misurati, uniformi ma genuini, della realtà, in modo che il film potesse sinceramente aiutare lo spettatore a ragionare e farsi un’idea sul mondo che lo circonda. “Mostrare e non dimostrare” era il motto coniato da André Bazin, e subito adottato da Rossellini, per descrivere il suo cinema. Nei suoi film non è il regista a prenderti per mano e ad accompagnarti nella visione, suggerendoti quando devi emozionarti o per chi devi parteggiare; il cinema di Rossellini non è intrattenimento, parola che lo disgustava (e per quello che vale disgusta anche chi scrive), e allo spettatore è richiesto un ruolo attivo e un discreto investimento in termini di attenzione, energia, riflessione, quasi come ci fosse un rapporto dialettico tra autore e fruitore. Se lo spettatore non ha voglia, non è disposto (o non è capace) di avere questo ruolo attivo il film risulta noioso e incomprensibile, magari pretenzioso; ma se lo spettatore è disposto a mettersi in gioco e ad impegnarsi entrerà in tutta una nuova dimensione del mezzo audiovisivo che, purtroppo, ad oggi è rimasta largamente, se non completamente, inesplorata.

Se non sono d’accordo al 100% con l’affermazione di Preminger è perché se lo guardiamo da questo punto di vista Roma città aperta è un tentativo non tanto ben riuscito ed è ancora zeppo di espedienti narrativi e di retorica. Infatti, benché sia sempre rimasto il suo più grande successo e un indiscusso capolavoro, era uno dei film che Rossellini amava meno. Ma è stato comunque Roma città aperta a portare alla ribalta un certo modo di intendere il cinema, a rappresentare una pietra miliare del neorealismo e ad introdurre un modo del tutto nuovo di realizzare un film: girare in esterno, dal vero, con attrezzatura leggera e soluzioni ingegnate sul momento, con attori non professionisti e lasciando massima libertà all’autore di modificare qualsiasi cosa in qualsiasi momento.

Il racconto rosselliniano ha sempre diviso profondamente la critica per il fatto di non essere schierato, di tendere alla neutralità, e ha fatto presa sul pubblico quando questo ancora non era intossicato dai folli ritmi e dalle ammicanti logiche della società dello spettacolo, ma anche quando gli eventi mostrati erano estremi, come nei film di guerra, e di per sé straordinari ed emozionanti. Quando invece, come negli anni ’50 e in particolare nei film realizzati con Ingrid Bergman, le situazioni e i contesti narrati erano più ordinari e stava allo spettatore individuare la straordinarietà dei gesti e dei moti dei personaggi, i fraintendimenti diventarono più frequenti e i film cominciarono ad avere meno successo, pur essendo invece degli assoluti capolavori di semplicità e profondità, analisi e sintesi. Per film come Stromboli, Europa ’51, Viaggio in Italia, La paura, India i critici francesi (Truffaut e Godard in prima linea) furono costretti a combattere affinché avessero il giusto riconoscimento e il rispetto che meritano.

In questo contesto, nel 1950, quando i nomi di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman impazzavano sui rotocalchi di cronaca rosa, con Anna Magnani che non perdonava il tradimento di lui e Hollywood che non perdonava il tradimento di lei, con i due appena tornati, come due fidanzatini, dalla lungissima e massacrante esperienza della realizzazione del loro primo film insieme, Stromboli, Rossellini realizzò un film che è una delle più brillanti gemme della sua filmografia: Francesco giullare di Dio.

Si tratta di un film a episodi, formula cara a Rossellini che amava rappresentare momenti rivelatori (un po’ come le famose “epifanie” dei Dubliners di Joyce, autore a lui caro) inserendoli in un percorso tematico di crescita e maturazione dei personaggi e delle loro idee, basato su i Fioretti di San Francesco d’Assisi. Il personaggio di Francesco è ovviamente centrale nella struttura del film che si appoggia sulla sua filosofia rivoluzionaria, ma risulta più che altro essere il catalizzatore di un personaggio collettivo che sono i fraticelli radunatisi attorno a lui nella piccola chiesetta di Santa Maria degli Angeli, a due passi da Assisi.

Gli episodi raccontati sono ricchissimi di riferimenti alla tradizione pittorica, esplicitati dal prologo iniziale realizzato filmando gli affreschi di Giotto della Basilica di Assisi, e mirano a rappresentare l’essenza rivoluzionaria di San Francesco che, nella cruda e violenta società medievale, lanciava un messaggio di generosità, umiltà e fratellanza. Lo strappo rivoluzionario è particolarmente emblematico nell’incontro, seppur grottesco e paradossale, carico di umorismo e comicità, tra un seguace di Francesco, Frate Ginepro, e il barbaro tiranno Nicolaio, straordinariamente interpretato da Aldo Fabrizi. All’aggressività, alle armi e all’intimidazione di uno si contrappone la disarmante ingenuità, la bontà e la pazienza dell’altro.

Le personalità di Frate Ginepro spicca tra quelle degli altri fraticelli insieme a quella Giovanni il Semplice: entrambi sono personaggi resi irresistibili dallo straordinario candore, dall’amabile bontà e dalla comica follia. Loro, come gli altri fraticelli, sono disposti a tutto pur di seguire gli insegnamenti di Francesco, rispettando e onorando gli ideali di povertà, generosità e fratellanza in cerca della perfetta letizia, fino a toccare vette inaspettate di surrealtà e di comicità. Ed ancora più sorprendente pensare che in realtà tutti questi personaggi vennero interpretati da attori non professionisti, scelti per la strada a pochi giorni dall’inzio delle riprese, e che in molti casi, e specie nei casi di Ginepro e Giovanni, la distanza tra attore e personaggio non era poi tanta e che talvolta le situazioni paradossali si creavano spontaneamente. In particolare ad interpretare Giovanni il Semplice era un senzatetto di Maiori, cittadina della Costiera Amalfitana cara a Rossellini, che, senza offesa, era effettivamente il classico pazzo del paese. Nessuno se non Roberto Rossellini poteva riuscire a fare una cosa del genere e tirarne fuori alcuni dei momenti più belli, profondi, commoventi e francescani della storia del cinema.

Francesco giullare di Dio – ITA, 1950
di Roberto Rossellini
con Aldo Fabrizi
91 min.

.