Scoprendo Vivian Maier


Se credete che esista il caso ma non il destino, se pensate che le favole siano solo una meravigliosa illusione degli scrittori, fermatevi qualche minuto e leggete questa storia.
“400 dollari e uno, 400 dollari e due, 400 dollari e tre. Aggiudicato al signore là in fondo!”. John Maloof prese lo scatolone e se ne tornò a casa. Odorava di polvere, l’odore del tempo che ha fermato la sua corsa tra pareti di cartone e che gli stava incipriando di nero i polpastrelli delle dita mentre se lo rigirava tra le mani, alla ricerca del punto giusto in cui affondare il taglierino. Un’incisione, una boccata d’aria e il tempo tornò nuovamente a scorrere, per un attimo. John, agente immobiliare di professione e appassionato storico nel tempo libero, stava collaborando alla realizzazione di un libro riguardante il quartiere Portage  Park di Chicago e sperava che in quello scatolone zeppo di negativi potesse esserci qualche immagine utile al suo lavoro; li sfilò controluce, li scorse velocemente, uno dietro l’altro,come
chi, alla ricerca di qualcosa di ben preciso, è cieco di fronte a ciò che non corrisponde al suo obiettivo; affondò le mani in centinaia di pellicole, ma non trovò ciò che cercava. Riscattate dall’oblio John ve le rimandò chiudendo di nuovo con un colpo secco lo scatolone; pensava al suo libro, non gli interessava la fotografia… non ancora. Quei negativi sbucarono fuori per poi essere ancora nascosti in un giorno non ricordato, altrettanto non ricordato il giorno di alcuni mesi dopo in cui John decise di tornarvi. Perché la memoria a volte è strana: trascina in un sonno sotterraneo persone, oggetti, avvenimenti, per poi svegliarli d’improvviso, senza che glielo venga richiesto. Così John, in quel giorno qualsiasi, tornò a rovistare nello scatolone. Riprese in mano i negativi ma non più con fare meccanico e distratto, li guardò per la prima volta: sentì il pianto e le risate dei bambini
che giocavano per strada, le note di Little Walter e Willie Dixon provenire dalle Chevrolet di passaggio, il rumore dei tacchi di donne impellicciate che camminano sui marciapiedi, la tenerezza di un amore non più giovane che non si nasconde in mezzo alla gente. E ogni tanto lei, una giovane donna, capelli corti nascosti da un cappello a larga tesa, abiti mascolini a coprire un corpo esile, sguardo timido che sfugge all’occhio della sua Rolleiflex mentre immortala se stessa nel riflesso di una vetrina. Quelle immagini sapevano parlare e John non fece altro che ascoltarle, per giorni, finché sentì sempre più forte il richiamo a una sfida: “Forza, provaci anche tu! Vediamo cosa riesci a fare”. Coglierla fu la sferzata decisiva verso un nuovo amore, la fotografia e colei che gliela fece conoscere. Comprò una fotocamera medioformato, identica a quella della ragazza delle foto, e si mise sui suoi
passi;  percorse le stesse strade, alla ricerca degli sguardi e dei sapori che si erano impressi nella sua mente, per comprendere ben presto che quella freschezza, quella immediatezza, quella capacità di vedere non erano affatto così semplici; quella ragazza ci sapeva fare, eccome. Scivolò pian piano nell’arte dello scatto, e più sapeva di tempi ed esposizioni, più voleva sapere di quella donna in bianco e nero. Come un investigatore alla ricerca di indizi, si rivolse per prima cosa alla casa d’asta: “ Spiacente, ma questi negativi sono stati messi all’incanto dal padrone di un deposito dove stati lasciati e mai più reclamati; l’affittuaria ha smesso di pagare, pare sia malata, ma di lei si sono comunque perse le tracce”. Deluso, ma non abbastanza da sotterrare la sua curiosità, John scoprì poco tempo dopo che il fratello di un suo amico, un certo Ron Slattery, aveva acquistato come lui una parte dei
negativi; radunarono il tesoro e cominciarono a scansionare e a sviluppare, già, perché alcune foto erano ancora custodite nel silenzio dei rullini e non avevano mai incontrato gli occhi di chi le aveva create. Occhi che incrociarono lo sguardo di ricchi e di vagabondi, di gente qualsiasi e pure qualche stupita celebrità, tra gli angoli di Chicago e qualche angolo del mondo. E poi, due anni dopo, intervenne ancora lui, il caso, se di questo si tratta: sulla carta ingiallita della busta di un laboratorio fotografico apparvero inaspettate due parole, “Vivian Maier”.  John e Ron si fermarono, sorpresi e increduli di fronte a quel nome che non pensavano nemmeno più esistesse. “Dunque è così che ti chiami…”. V-I-V-I-A-N  M-A-I-E-R cliccato su Google e…
“Vivian Maier, di orgogliosa origine francese e residente a Chicago negli ultimi 50 anni, è morta serenamente Lunedì. Seconda madre di John, Lane e Matthew. Uno spirito libero e gentile che toccò magicamente le vite di chi la conobbe. Sempre pronta a fornire consigli, opinioni o a dare una mano. Critica cinematografica e straordinaria fotografa. Davvero una persona speciale che mancherà dolorosamente, ma la cui lunga e meravigliosa vita tutti noi celebreremo e ricorderemo sempre”.
Così citava un necrologio del Chicago Tribune, datato 21 Aprile 2009. Solamente due giorni prima.
E così a volte capita che delle vite si incrocino senza mai conoscersi. Da lì, il passo a contattare chi della sua vita ne fece parte fu breve. Le parole dei Gensburg presentarono ufficialmente Vivian Maier a John.
“Quando si presentò alla nostra porta sembrava Mary Poppins: indossava un pesante soprabito, sotto spuntavano una lunga gonna orlata in pizzo e robuste scarpe, portava con sé un’enorme borsa da viaggio. E come Mary Poppins arrivò per prendersi cura di noi, era il 1956. Era nata a New York, ma era per metà francese e per metà austriaca. Visse in Francia per un certo periodo, ma poi decise di far ritorno alla Grande Mela. Cosa la portò qui a Chicago non saprei, era una persona molto riservata, schivava sempre le domande sul suo passato. Noi bambini la adoravamo: ci raccontava storie, ci faceva vedere film, visitare monumenti, raccogliere fragole nel bosco. Voleva che esplorassimo la vita al di là di Highland Park, il nostro quartiere, che fossimo consapevoli di ciò che accadesse intorno. Ricordo ancora il giorno in cui, guardando fuori dal finestrino del treno di
ritorno da uno dei nostri giri, le feci notare con stupore che c’erano dei vestiti appesi fuori dalle case ad asciugare, -Pensi davvero che tutti abbiano un’asciugatrice in casa?- mi disse. Non sappiamo se avesse amici o un fidanzato, ma a chi per sbaglio le si rivolgeva apostrofandola come signora -Signorina – rispondeva- e ne vado orgogliosa-. Di certo la macchina fotografica era il suo compagno più fedele, se la portava in giro appesa al collo e nel tempo libero si chiudeva in bagno a sviluppare. E la macchina fotografica fu l’unica cosa che l’accompagnò quando decise per sei mesi di girare il mondo da sola. Cosa la spinse a partire anche questo è un mistero, e dopo essere stata a Los Angeles, a Manila, Bangkok, in Egitto e in Italia, tornò a essere la nostra babysitter, fino a quando fummo abbastanza grandi da cavarcela da soli. Lasciò la nostra casa nel 1972,
nessun cenno a dove sarebbe andata; la ritrovammo all’inizio degli anni novanta e dovemmo insistere perché accettasse di andare a vivere in un appartamento confortevole a Rogers Park, dove avremmo potuto anche occuparci di lei. Per tutti quegli anni aveva continuato a fare la babysitter, aveva continuato a fotografare e continuava ad andare in giro per la città, da sola. Poi l’anno scorso scivolò sul ghiaccio, una banale caduta dalla quale però non riuscì più a riprendersi del tutto. E poi…com’è finita già lo sa. Abbiamo sparso le sue ceneri tra le fragole di bosco.”
Col passare dei giorni John non smise di pensare a quella ragazza che entrava nelle case delle famiglie portandosi dietro tutta la sua vita racchiusa dentro scatoloni. La sua storia era (e tuttora lo è) una trama aperta, con  personaggi e scene ancora da scoprire, e per scovarli John comprese di dover
proseguire a scansionare e a sviluppare i negativi, come un archeologo che strato dopo strato trova le tracce nascoste per ricostruire un quadro, il più fedele possibile, alla realtà. L’archeologia e la fotografia per certi aspetti sono simili: salvano dal tempo esistenze. Recuperò dagli altri acquirenti ulteriori negativi, 12.000 in tutto, raccolse abiti e documenti dalle famiglie che la incontrarono, trovò persino registrazioni audio. Lo stupore per ogni foto che affiorava era tale che non poté più tenerselo per sé, così fece quello che qualsiasi ventottenne può fare nell’era della comunicazione web: aprì un blog, per pubblicare di volta in volta gli scatti ritrovati, cosicché, ancor oggi, sembra di partecipare personalmente a una continua scoperta.  Alla ricerca di un’opinione da parte di chi se ne intendesse un pò di fotografia, ne pubblicò alcune su Flickr, sito di photo sharing per appassionati e addetti al mestiere; alla domanda “Cosa ne pensate di queste immagini? Sarebbero adatte a un’esposizione?” arrivò una valanga di impressioni entusiaste, che ne elogiavano la composizione, la poesia, l’ironia o il dolore di cui si facevano portatrici, non disdegnando paragoni con i più noti maestri dello scatto, da Erwitt a Klein, da Frank a Doisneau. La straordinarietà di ciò che gli capitò tra le mani non poteva dormire invisibile in una soffitta, così John fece di tutto perché anche gli altri vedessero il mondo attraverso gli occhi di Vivian.
Le sue foto ora sono esposte al Chicago Cultural Center; in autunno la Powerhouse Books, raffinata casa editrice della fotografia e dell’arte che conta, pubblicherà il suo primo libro; nel 2012 uscirà un documentario sulla sua vita. Una domanda però rimane aperta: cosa penserebbe Vivian Maier di tutto ciò, lei che tenne la sua arte per sé e non fece nulla per rivelarla agli altri? Lei, che scattava e subito scompariva tra le strade di Chicago, forse non perdonerebbe John o forse, come in una delle sue registrazioni, direbbe “Bisogna lasciare spazio ad altre persone, perché esse hanno la possibilità di arrivare fino in fondo”.

Finding Vivian Maier
Chicago Cultural Center
8 Gennaio – 3 Aprile 2011

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