Sesso e “fiasco”: la grande metafora corporea della difficoltà d’incontrarsi

Per poco che amiate con passione una donna o che la vostra immaginazione non sia esaurita, se ella è incauta al punto di dirvi una sera con aria tenera e interdetta: venite domani a mezzogiorno, non riceverò nessuno, non dormirete la notte per l’agitazione nervosa. In mille forme immaginiamo la felicità che ci aspetta, la mattinata è un supplizio; finalmente l’ora suona, e pare che ogni colpo dell’orologio vi batta sul diaframma. Vi avviate verso quella via palpitando, non avete la forza di fare un passo: intravedete dietro la persiana la donna che vi attende: salite facendovi coraggio … e fate fiasco”. Meno male c’è la letteratura a cui chiedere aiuto per trattare argomenti che sono spine. Stendhal nel trattato De l’amour del 1822, ci ha raccontato l’ansia da prestazione appropriandosi della parola italiana “fiasco”. Pure alla letteratura hanno fatto riferimento i sessuologi riuniti a Roma al convegno “Impotenza maschile, femminile e di coppia” organizzato da Gennaro Scione direttore dell’Arpci (Associazione per la Ricerca in psicoterapia cognitivo-interpersonale) e dell’Accademia italiana di sessuologia. A parlare per prima di impotenza maschile in letteratura come ha ricordato Giorgio Rifelli (Responsabile servizio sessuologia clinica, università di Bologna), è stata una donna, la duchessa  Claire de Duras nata Kersaint nel romanzo Olivier ou le secret, scritto nel 1821 e pubblicato solo nel 1971: tanto ritardo vorrà pur dire qualcosa. Il segreto di Olivier era l’impotenza.

La citazione letteraria più inflazionata in tema è tratta però dal Bell’Antonio di Vitaliano Brancati per il quale l’impotenza è una disgrazia: “Domineiddio mi manda la disgrazia più cattiva, più nera, più velenosa che si possa mandare a un uomo”. Rifelli ha osservato che il modo di nominare le cose sottende una cultura e fa la differenza: “Impotenza è termine ereditato dalla lingua latina e dall’uso che ne ha fatto il codice di diritto canonico per classificare tutte le forme di difficoltà che impedivano di consumare il matrimonio e lo facevano considerare nullo”. Oggi si parla di disfunzione sessuale.  A definire come, quando, quanto siamo impotenti o disfunzionali, (maschi, femmine, mutanti), non sono solo le parole che si scelgono ma anche le teorie di riferimento. Nel corso del convegno si sono confrontate almeno tre teorie. Grazia Attili (professore ordinario di Psicologia sociale presso l’università La Sapienza di Roma), ha fatto riferimento alla teoria dell’attaccamento elaborata dallo psicoanalista britannico John Bowlby: tutto si spiegherebbe in base alla relazione con la madre, ai modelli operativi interni che ognuno di noi va sviluppando, alle credenze e aspettative che plasmano le relazioni successive, specie con un partner. In base alla tipologia materna l’individuo sceglie inconsapevolmente su che binario viaggiare: sicuro, ambivalente, evitante, disorganizzato. “La teoria dell’attaccamento – ha voluto sottolineare Grazia Attili – è una teoria scientifica e si basa su evidenze empiriche. L’attaccamento è l’esito dell’ambiente e dell’interazione madre-bambino”. Ecco allora che apllicando questo modello, “i partner si scelgono sulla base dell’attivazione del sistema dell’attaccamento e l’insicurezza nell’attaccamento provoca come effetti disturbi sessuali, rappresentazioni mentali di sé e degli altri che si intersecano con quelle del partner”. Neutralizzare una bomba a idrogeno è più facile. Fatto sta che “i sintomi in ambito sessuale sono sintomi di un disagio nella relazione”. Cara madre a causa tua si può avere o troppa paura dell’abbandono o terrore dell’intimità: persino d’essere sminuzzati, triturati a chissà quanti watt. In tal caso accade che le donne evitanti arrivano a “un comportamento che impedisce l’attecchimento degli ovuli. È una strategia inconsapevole per mantenere le distanze”.

Secondo Giorgio Rifelli (medico e psicoterapeuta, responsabile del Servizio di Sessuologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, docente di Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale presso la Facoltà di Psicologia della stessa Università), “tutte le patologie della sessualità sono patologie dell’aggressività”. Persino predatoria. Fondamentali sono le categorie culturali e quindi lessicali in cui sono inserite le malattie o per meglio dire i sintomi. L’uomo con disturbi sessuali è stato tradizionalmente definito impotente “perché a lui spetta il compito di prestare efficienza”; la donna invece è stata etichettata frigida perché per cultura lei deve essere accogliente in tutti i sensi ed elargire sensibilità. Ma poiché “le culture producono le loro malattie, la nostra sintomatologia è diversa  da quella conosciuta fino a una ventina di anni fa”. Ecco allora “uomini che raccontano un vissuto di frigidità, non hanno desiderio, non provano piacere e rompono gli schemi”. Di eiaculazione precoce invece si è iniziato a parlare solo quando “è emersa come legittima la possibilità che la donna potesse provare piacere”. Fatto salvo che si tratta di patologie dell’essere, non del fare o del sentire, in mancanza di una rappresentazione linguistica idonea, a parte i tecnicismi del gergo medico, Rifelli ha proposto una sua formula a spiegarle: “Incapacità di essere uomo o di essere donna che può nascere dalla reale o presunta compromissione di uno, di alcuni, di tutti i momenti biologici della sessualità che definiscono la virilità o la femminilità in un determinato contesto socioculturale”. Spesso non si tratta di malattie ma di sintomi che si manifestano anche se la sessualità è disgiunta dall’affettività.

Infine la teoria sistemica a cui si è riferito Carmelo Saccu (neuropsichiatra e psicoterapeuta, già professore associato di neuropsichiatria infantile, responsabile settore di terapia familiare) mira a integrare la psicodinamica con altri sistemi di pensiero  per gestire la complessità umana e sviluppare da sessuologi modelli terapeutici altrettanto complessi, capaci di affacciarsi oltre la genitalità. La sessualità è metafora di conflitti profondi, resta fondamentale la rivelazione freudiana che l’io si tiene in equilibrio sulla sommità di un iceberg, tutto il resto è sommerso. Saccu ha anche aggiunto che spesso quel che succede in una relazione non ha a che vedere solo con la storia delle due persone ma con la storia bigenerazionale o trigenerazionale. Dimentichiamo insomma, teoria della collusione a parte, che vagano fantasmi anche dove la casa sembrerebbe illuminata a giorno. L’auspicio emerso è di cercare non solo di far coesistere ma di integrare modelli anche lontani, non essere rigidi nell’applicare da terapeuti il proprio modello di riferimento e soprattutto non credere di avere in tasca verità assolute (talvolta neanche noccioline), intendere in maniera socratica la psicoterapia quale via di comprensione e relazione con il disagio dell’altro. Assecondando questa impostazione, vale l’avvertenza del filosofo Emil Cioran sulla malattia in genere: “La malattia, accesso involontario a noi stessi, ci assoggetta alla profondità, ci condanna a essa.  Il malato? Un metafisico suo malgrado”.