Shame, per un’estetica della vergogna

I cuccioli dell’uomo ci mettono parecchio tempo a svezzarsi. Rispetto ad altri animali, gli uomini moderni tendono a coprire, nell’arco di vita, il tempo necessario a formare uno, tutt’al più due nuovi nuclei familiari. Il prospetto sociale consigliato prevede di nascere, crescere, istruirsi, trovare un lavoro (ove fosse possibile), sposarsi, procreare, costituire a propria volta un modello, andare in pensione (avendo versato i regolari contributi) e prepararsi al congedo. Le strade secondarie, i destini delle persone fatte di carne e sangue, sono poco frequentati dalla propaganda ufficiale. Tornano in mente le parole di Freud, poco più di un secolo fa: “In linea generale, la nostra civiltà è edificata sulla repressione degli impulsi. (…) A parte le necessità della vita, sono probabilmente i sentimenti di origine erotica verso la famiglia che hanno mosso i singoli individui a tale rinuncia. È stata una rinuncia progressiva nel corso dell’evoluzione della civiltà, e ogni passo in avanti è stato sancito dalla religione; la parte di soddisfazione pulsionale cui si è rinunciato è stata sacrificata alla divinità; il bene comune così conseguito è stato chiamato Sacro”.

La creazione di miti ad opera dalla religione, l’indagine di controversi nodi sociali, sono fra i temi ricorrenti nella poetica di Steve McQueen. No, non l’attore protagonista di Bullit e de L’ultimo buscadero: lo Steve McQueen di cui stiamo parlando non ha gli occhi azzurri e non corre in moto nella West Coast, bensì nasce a Londra nel 1969, è afroamericano, di professione fa l’artista visuale. (Potete guardare, ad esempio, l’installazione Queen and the country, presentata nel 2010 alla National Portrait Gallery). Il debutto nella regia cinematografica avviene con Hunger, che vince la Camera d’Or a Cannes 2008. Hunger racconta i sessantasei giorni che precedono la morte in carcere di Bobby Sands, attivista dell’IRA, dopo uno sciopero della fame per riottenere lo status di prigioniero politico: un martirio fisico che si snoda di sequenza in sequenza come le tappe di una Via Crucis. Il secondo film, Shame (Vergogna), comprime gli stessi temi entro i confini dell’individuo, dato che il corpo, da oggetto del patimento, si rivela esso stesso prigione. Brandon, il protagonista, soffre infatti di sex addiction, ovvero di un eccesso di pulsione sessuale. Entriamo nel suo mondo fin dalle prime immagini, che lo descrivono mentre va al lavoro: un trentacinquenne elegante, ben vestito, che flirta con una sconosciuta nella metropolitana di New York. Nel gioco di sguardi percepiamo l’attrazione e il dubbio insinuarsi sul volto di lei. Prima della fermata, la ragazza si appoggia con la mano al palo per tenersi. Brandon si alza, mette una mano sotto la sua, si sfiorano, poi lei si perderà tra la folla. Cosa si nasconde dietro lo sguardo di un sex addict? Per rispondere ci serviamo delle parole di Umberto Galimberti: “Il desiderio non conosce incontri, non riduce la propria soggettività per creare quello spazio indispensabile all’apparizione della soggettività altrui. Il desiderio conosce solo la saturazione per possesso. Nel suo sguardo non ci sono le tracce di un’attesa, ma la smaniosa concupiscenza di incontrare nell’altro solo se stesso, per cui se spoglia un corpo è per possederne la carne, è per sottrargli, con le vesti, ogni traccia di soggettività che lo sguardo di desiderio, a differenza dello sguardo d’amore, non sa fronteggiare”.

Non a caso la sequenza della metro è inframmezzata da brevi flashback: Brandon che si sveglia, ascolta la segreteria, va in bagno; poi la sera, nel suo appartamento high tech, mentre riceve una escort; di nuovo al mattino il suono della sveglia, la segreteria telefonica e il bagno (viene ripreso nudo frontalmente, perché il corpo è il territorio della storia e anche un po’ “perché così se ne parli”); ancora di notte, stessa location, intento a guardare siti porno durante la cena. Il rituale mattutino si ripete come si ripetono le escort e il sesso online, oppure, più avanti, la masturbazione nel bagno aziendale o i brevi rapporti con fugaci partner. Sono tutte occasioni per soddisfare i suoi impulsi e sono tutte sullo stesso piano; proprio per questo, paradossalmente, è necessaria la variazione continua dello scenario: non essendoci alcun interscambio emotivo, la diversificazione è l’unico antidoto alla noia, l’unico escamotage che permetta un’illusione di novità. Non è un risultato da prendere con sufficienza: spesso queste patologie sfociano nell’abuso sessuale, nella violenza ingenerata dalla frustrazione. La sceneggiatura di Shame, evitando tali derive, riesce anche ad affrancarsi da certa letteratura americana degli anni ottanta, così ben sintetizzata da Bret Easton Ellis in American Psycho: Brandon non è un nuovo Patrick Bateman, e New York, al tempo della crisi, indossa una veste decisamente meno glamour. McQueen sceglie i toni del grigio acciaio e del blu cobalto per fotografare la città di notte, per disvelare le strade senza uscita del suo antieroe.

Per una parte del genere, bisogna avere il physique du rôle, e più di quanto non avvenisse in Hunger, possiamo dire che Shame si regge sulle spalle di Michael Fassbender (ex Inglourious Basterd di Tarantino), un attore che non fatichi a immaginare dotato di notevole ascendente sulle donne (o sugli uomini). A questo punto, le esigenze drammaturgiche prevedono l’ingresso di una figura nuova, che rompa l’equilibrio forzoso della routine di Brandon. Il regista, nel dare a tale figura i tratti delicati di Carey Mulligan (appena meno convincente che in Drive), indulge ancora un volta alla dimensione religiosa. Sissy, la sorella minore di Brandon, cantante jazz, è come un angelo sbadato che bussa alla sua porta. È una ragazza interrotta che più cerca l’amore più lo spinge via, fino ad arrivare all’autolesionismo. Soltanto con lei Brandon è davvero nudo e sente la vergogna montargli dentro. Proverà a cambiare, invano, frequentando una collega d’ufficio; ritroverà i vecchi fantasmi in una notte di eccessi, senza approdare mai ad una vera redenzione. Il finale è aperto e circolare.

Il rapporto morboso tra fratello e sorella apre una fenditura nel passato, quando Sissy dice a Brandon: “Non siamo brutte persone, veniamo solo da un brutto posto”. Nel film non ci sono altre concessioni a facili psicologismi, i dialoghi sono ridotti all’osso, l’espressione è affidata soprattutto alle immagini che rivelano, nell’equilibrio compositivo, il percorso professionale del regista. McQueen indugia sui personaggi con lunghi piani sequenza, riducendo al minimo gli stacchi di montaggio, in modo da accentuare la naturalezza delle situazioni. E nel contrasto fra uno stile freddo e il tema a sfondo sessuale, può ritornare in mente Crashuno dei film più efficaci di David Cronenberg. Il contrasto si ripropone nell’utilizzo della musica, spesso dissonante rispetto al piano visivo. Ne sono un esempio la forsennata corsa di Brandon fino a Time Square – resa con un’unica carrellata laterale – che ha come sottofondo le Variazioni Goldberg di Bach suonate da Glenn Gould; o la scena di sesso a tre senza sonoro, se non per il commento del violoncello di Harry Escott, che si rifà scopertamente, nel motivo centrale, ad un brano della Sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick; per non dire della strascicata interpretazione di New York New York (la voce originale è di Carey Mulligan): quasi un contro-manifesto della città che non dorme mai. Ma di tutto questo, a Brandon e Sissy importa poco. Sono solo parole, ne abbiamo usate fin troppe. Non rimane altro che andare al cinema, per trasformarle in vere emozioni.

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