Donne invisibili: l’umanità senza voce negli scatti di Sheila McKinnon

Qualsiasi vocabolario chiarisce che il sostantivo femminile “donna” sta a indicare un individuo adulto di specie femminile, ovvero la femmina adulta di homo sapiens per chi ami i risvolti etologici. Resta una grave omissione: donna è sostantivo che da solo non si tiene, non si spiega. D’altro canto, hai voglia di abbinarle aggettivi soliti e declinarla in locuzioni d’uso comune, esplicitate nei vocabolari. Donna è vocabolo che porta con sé solo e soltanto, come fosse il peccato originale, l’attributo che da sempre è destino, con varie gradazioni, dell’individuo adulto di specie femminile: invisibile. Chi dice donna dice essere invisibile.

Può sembrare un controsenso piagnucoloso e vittimista, visto e considerato che in apparenza la nostra beneamata civiltà dell’immagine e dell’esibizione ha dilatato la donna fino alla gigantografia. Ma quale donna? La donna immagine, appunto, manichino, membra, brandelli di carne, polpa pronta. Anche questo è un modo paradossale, corpulento e macroscopico di rendere invisibile la donna. Altrove, nel mondo altro la cui priorità è la sopravvivenza, le donne sono invisibili secondo inclinazioni e declinazioni della propria cultura d’appartenenza, pur sempre misogina e patriarcale, e condizioni socio-economiche del proprio paese. Invisibili dalla nascita e fino alla morte. Destino toccato a milioni di donne, che riguarda milioni di adolescenti per le quali il passaggio in terra è una pena da espiare senza trovare spiegazione, se non nelle imposizioni paterne e maschili.

“Born invisible”, adolescenti ai margini, è il titolo della mostra di fotografie della italo-canadese Sheila Mckinnon che si inaugura il 3 febbraio alla Loggia degli Abati di palazzo ducale a Genova. La mostra è organizzata dalla Fondazione Edoardo Garrone insieme all’Aidos, associazione italiana donne per lo sviluppo, ed è ospitata dalla Fondazione per la cultura palazzo ducale. Born invisibile, nate invisibili, sono spose bambine, madri troppo giovani, ragazze stuprate, sieropositive, abbandonate, sole, dimenticate.

Fotografie come narrazioni, “rivelazione dell’invisibile”, ritratti di adolescenti, indiane, asiatiche, africane, sospese tra realtà, possibilità, persino un tenue vagheggiamento onirico negli occhi, mentre tutt’intorno il contesto svela emarginazione e degrado. La cifra stilistica che caratterizza questi lavori è la duplicazione dell’immagine, una sorta di radiografia della luce dentro il corpo comune che sottolinea una storia parallela, la storia interiore, a cui non corrisponde la vicenda esterna obbligata: l’ adolescenza non vissuta, la strada come condizione imposta dalle famiglie ed esercizio della sopravvivenza, oppure il matrimonio precoce come scelta paterna, o le gravidanze precoci, le malattie. Le foto raccontano ragazze nate senza voce a cui è richiesto un unico requisito: essere invisibili, non disturbare, non intralciare la logica delle cose. L’arte di raddoppiarle in foto vuole essere un mezzo di farle parlare e riscattarle dal destino di marginalità umana. Compito difficile perché la fotografia cade spesso in trappole di segno opposto: il manierismo estetico o il sensazionalismo cronicistico.

“Il mestiere di fotografo, come di tutti coloro che lavorano con l’immagine, è sempre più esposto al rischio di produrre belle immagini che sono fine a sé stesse”, scrive Maria Giovanna Musso, sociologa dell’arte, nel catalogo. “Oppure – aggiunge la studiosa – specie nel caso della fotografia sociale, per definizione volta alla denuncia – si orienta alla ricerca di immagini forti, scandalistiche, urlanti, che tendono ad estremizzare la ferocia e la brutalità del mondo”.

Le immagini di Sheila McKinnon, invece, non sono autoreferenziali e neanche sensazionalistiche. Sono una cronaca della realtà abbinate allo svelamento dell’anima che finalmente dà voce a bambine e adolescenti. La ragazzina del Burkina Faso è incorniciata con il secchio da lavoro in mano, in primo piano forse proiettata altrove e libera dalla sua corvee, gli occhi che anelano una qualche liberazione. Il gruppo di bambini indiani sta tra taniche d’acqua e provvisorietà auto-sostenendosi in un cammino di vita casuale. La bambina della Sierra Leone ha gli occhi allarmati sotto l’ombrello a righe rosso e nero che dovrebbe proteggerla da un destino avverso e creare un piccolo spazio onirico. Forse potrebbe avere un’esistenza altra se il caso girasse appena l’angolo e potesse fare cose normali, da bambina. La “blue girl” vietnamita mostra le piaghe di un’esistenza di sfruttamento e lavoro minorile, il cappellino rosa in testa è l’unica variante gentile. La bambina indiana dalla gonna rossa sembra abbia l’opportunità, sia pure momentanea, di vivere l’avventura della lettura in un mondo di lamiere e baracche. Nel deserto del Morocco le donne bambine accudiscono fratelli, o forse figli, che non fa differenza, hanno fisionomie, il volto è annebbiato, irradia luce potenziale, ma anche la costrizione a non essere se la vita diventa inferno. La mostra si inserisce in un percorso che la Fondazione Edoardo Garrone ha iniziato già da alcuni anni con le associazioni non governative Aidos e Amref con le quali Sheila Mckinnon collabora da anni, oltre al lavoro svolto per testate giornalistiche europee e americane.

“Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo le bambine e le adolescenti occupano l’ultimo gradino della scala gerarchica familiare – spiega Daniela Colombo, presidente dell’Aidos – Sono sfruttate per ogni sorta di lavori domestici o di attività generatrici di reddito, come ad esempio la tessitura. Spesso sono abusate sessualmente da membri della loro stessa famiglia, sono sottoposte a pratiche tradizionali quali le mutilazioni dei genitali femminili e sono costrette a matrimoni precoci e forzati in cambio del cosiddetto “prezzo della sposa”.

“Questa è semplicemente la normalità in tanti paesi – aggiunge Daniela Colombo – il modo in cui si costruiscono i ruoli di genere in società patriarcali che assegnano a uomini e donne compiti e funzioni diverse e che solo ora cominciano a riconoscere la profonda iniquità iscritta nella tradizionale costruzione dell’identità di genere. E mentre tante organizzazioni si impegnano per l’infanzia, pochissimi programmi cercano di far fronte specificamente ai bisogni delle adolescenti e, soprattutto, di quelle più povere. Che nascono e continuano a crescere “invisibili”, sotto il peso di responsabilità adulte arrivate troppo presto che cancellano i loro sogni e le loro aspirazioni”.

Con le dovute differenze, tutte le società sono misogine e “tollerano” la donna a condizione che sia “invisibile”, che compaia o meno. L’invisibilità femminile è coltivata ad arte persino nella ricostruzione storica. Qui da noi stiamo festeggiando, almeno sulla carta i 150 anni dell’unità di Italia. Ma che tipo di festeggiamenti sono? C’è una madornale omissione che è emblematico specchio della società attuale. Sembra che il Risorgimento sia stato una vicenda di soli uomini. La rappresentazione dell’unificazione nazionale è tutta maschile. Nulla si ricorda delle donne che parteciparono alle cospirazioni carbonare, al dibattito culturale, al Risorgimento. E se si ricordano, se sono entrate nei libri di storia non è per meriti propri, ma per essere state (come Anita Garibaldi, Teresa Casati Confalonieri, Giulia Beccaria) compagne o madri di personaggi maschili, degne d’attenzione perché “aiutanti” di campo dell’eroe, e idealizzate in una dimensione tragica. Se proprio vivono di vita autonoma è in un ambito di “pertinenza” tipicamente femminile, quella dell’intrigo, ancor meglio se a sfondo erotico, come la contessa Oldoini di Castiglione. E non è un caso se alla pinacoteca provinciale di Bari è in corso una mostra (fino al 29 maggio) dedicata alle Eroine invisibili. Storie di donne dalle collezioni della provincia di Napoli e della Pinacoteca di Bari. Storie in pitture del ruolo civile e sociale svolto dalle donne in due secoli di storia italiana, prima e oltre gli stereotipi femminili della bellezza. Eppure sembra quasi moderata la misoginia dell’Italia risorgimentale e postrisorgimentale, a confronto con la fallocrazia che la cronaca ci restituisce ogni giorno. Purtroppo però, lo spaventoso arretramento fino all’harem e al sultanato è avallato e favorito da stuoli di ragazzine che si credono emancipate o astute ma maschiliste quanto e più dei loro sfruttatori, rafforzano la visione della donna come merce. La buona notizia viene da Kabul: ha da poco riaperto il giardino delle donne, composto da 3500 mandorli in fiori e cinquemila rose rosa appena piantati. Qui le donne prima dell’arrivo dei talebani potevano passeggiare a capo scoperto e sentirsi libere. La cosa non piacque e i talebani distrussero il giardino. Ora rinasce. Rose e fiori di mandorlo: armi gentile contro la rozzezza di un potere flaccido.

La mostra di Sheila McKinnon è visitabile dal 4 al 20 febbraio dalle ore 10.00 alle 19.00.

Ingresso libero.

3 thoughts on “Donne invisibili: l’umanità senza voce negli scatti di Sheila McKinnon

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  • Gennaio 29, 2011 alle 9:40 pm
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    Non mi è chiaro il senso del primo pezzo dell’articolo, con il riferimento al significato di “donna” che c’è sui dizionari come “essere invisibile”. Capisco sia una metafora ad effetto, per iniziare bene il pezzo, ma in realtà donna in origine significava tutt’altro: altro che essere invisibile, la “domina” (da cui donna) eraletteralmente la signora della casa, la padrona che gestiva l’amministrazione domestica come l’uomo gestiva quella degli affari esterni. Non è un po’ viziato di ideologia, un inizio come questo?

    • Gennaio 30, 2011 alle 10:37 am
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      Era, voleva essere un paradosso il mio: donna è per definizione invisibile nella mia personale lettura certo, non che il vocabolario dia una definizione di donna come essere invisibile. Che sia “regina” dei fornelli e della casa tutta, amministratrice non delegata di casa, figli, tegami, affetti, oneri, lavori esterni o checchessia, la donna resta quasi sempre invisibile all’occhio maschile. Invisibile perché si dà per scontata ogni sua forma di impegno, quello che fa è dovuto, per non parlare delle sue dinamiche psichiche e dei moti del suo cuore, spesso ignorati il tempo della vita dal suo compagno reale o presunto. La donna è e resta invisibile anche più quando è ridotta a oggetto di carne. Ovvio che il pezzo è viziato di ideologia partigiana, e perché non dovrebbe esserlo? La cronaca nazionale e mondiale, racconta una realtà che non lascia ben sperare, che anzi sembra esserci un arretramento in quanto a misoginia. L’ideologia a volte è l’unico modo per restare sveglie e coscienti noi donne. Non prendere per buono un mondo costruito non certo a nostra misura. (Piera Lombardi)

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