Si parla di draghi, ma a danzare sono gli uomini

Dove vuole andare a parare Martin? Si avvereranno le profezie che sempre più spesso vengono tirate in ballo? Oppure si riveleranno l’ennesimo trucco di uno scrittore che sa come ingannare il lettore? E che finale avremo, classico ed edificante o cinico e spiazzante? Quale delle due principali componenti della saga avrà il sopravvento, l’epica fantasy o il crudo realismo? Entrambe acquistano peso, in A dance with dragons: molta più magia ma anche molta più introspezione e incertezza nelle azioni dei personaggi, trascinati da un destino cieco e precario.

Quasi tutto il libro è incentrato su Jon, Daenerys e Tyrion, vale a dire i personaggi più amati della serie, la cui assenza dal precedente A feast for crows aveva deluso molti. Fra i comprimari, un posto di rilievo spetta senza dubbio a Reek – suoi alcuni dei capitoli più belli del libro – e ser Barristan Selmy. L’arco narrativo di Bran, benché non troppo esplorato, lascia presagire novità molto interessanti, come pure quello di sua sorella Arya. La fugace comparsa di Jaime, invece, è un atto di pura crudeltà: un solo capitolo, un incontro con una vecchia conoscenza e poi… più nulla.

Vi aspettavate che in questo libro si risolvessero un po’ di sotto-trame? E invece no! Anzi, Martin butta nella mischia un nuovo pretendente al trono, ritarda incontri molto attesi, fa indugiare personaggi, semina nuovi dubbi e rispolvera vecchie conoscenze. La trama si infittisce e se già prima era difficile capire chi sta con chi, ora lo è ancora di più. Un’incertezza che non grava soltanto sul lettore ma anche sui personaggi, costretti a brancolare nel buio, invischiati in situazioni sempre più grandi di loro. E siccome ogni storia è anche fatta di tempi morti, errori e tentennamenti, Martin sceglie di raccontarci pure questi.

È un bene o un male? Questione di gusti. Quel che è certo è che la capacità di Martin di entrare sotto la pelle dei personaggi, facendoci vivere la storia attraverso i loro occhi e le loro riflessioni, e mettendo a nudo i loro umanissimi difetti, è magistrale. Altrettanto magistrale è la sua abilità nel descrivere la real-politik di un mondo fittizio ma incredibilmente verosimile: il mantenimento del potere e il conflitto fra ideali e pragmatismo sono infatti due dei temi centrali del libro. Empatia e realismo sembrano dunque le carte su cui l’autore ha scelto di puntare, una scelta che potrebbe rivelarsi tanto ambiziosa quanto difficile. Il rischio di deragliare, perdendosi in troppe divagazioni, colpi di scena e via dicendo, è infatti altissimo e non va dimenticato che la crescente componente magica si nutre di eroi, profezie e grandi imprese – in una parola, di quell’epica che Martin sembra voler mettere in secondo piano. Un azzardo, insomma, la cui ricompensa però può essere grande, poiché è chiaro che The song of ice and fire ha ormai travalicato i confini della classica saga fantasy: con tutto il suo parlare di draghi e profezie, Martin ci sta in realtà raccontando l’uomo, con le sue ambizioni, debolezze e fragilità. E nel far ciò, è indubbiamente un maestro.