It’s the same train, but it’s different.

Poco più di un anno fa mi sono imbattuto in Moon, film di cui non sapevo nulla ma di cui qualche amico mi aveva parlato con entusiasmo (sì, scrivo di cinema ma snobbo alquanto l’hype delle nuove uscite, i blog, le riviste e tutto il resto, quindi di questo film uscito a fine 2009 davvero non sapevo nulla). Ne rimasi folgorato: finalmente un film che possedesse l’inventiva, l’impatto visivo, l’universalità, il pathos e anche le problematiche etiche dei grandi classici di fantascienza. Non se ne vedevano da decenni.

Duncan Jones with David BowieRegista? Un esordiente, tale Duncan Jones, a me completamente sconosciuto. Il tutto riaccese in me nuove speranze sul futuro del cinema e dell’industria cinematografica. A non guastare per niente il quadro giunse la scoperta, avvenuta parecchio tempo dopo, che il buon Duncan fosse figlio di tale David Bowie e che, da quello che ho sentito dire, non abbia voluto cavalcare il nome del suo padre per farsi strada nel mondo dello spettacolo. Il tutto contribuiva ancora di più a riaccendere le mie speranze per il futuro: finalmente un figlio d’arte che non fosse un completo imbecille ma effettivamente un autore di belle speranze (e di un certo talento) e che non volesse marciare sul cognome di suo padre: in definitiva, quanta pubblicità in più riceverebbero i suoi film se si presentasse come mr. Duncan Bowie? Insomma, non sono così ingenuo da pensare che il buon Duncan non abbia avuto la vita un po’ più facile di un Pinco Pallino qualsiasi per arrivare al suo esordio cinematografico, ma ben venga se il suo esordio è un film di questo livello.

Detto questo, capirete che quando ho sentito dell’uscita del suo secondo film, Source Code, protagonista Jake Gyllenhaal (che pure mi piace), mi si sono rizzate le antenne, e non sono certo stato il solo. Con Source Code Jones rimane sul terreno su cui già aveva convinto: fantascienza. E anche i temi sono simili: la solitudine e la situazione estrema in cui si trova il protagonista, la frammentazione della realtà e la sua ripetizione ciclica e infine la disperata ricerca di una via d’uscita di un protagonista ignaro che si trova calato artificiosamente in una situazione che va molto oltre la sua comprensione, come un topo di laboratorio in un labirinto. Ovviamente non posso dirvi molto di più sul film, pena uno spoileraggio che ne comprometterebbe irrimediabilmente la visione. Provo però a spiegarvene il meccanismo di base: Gyllenhaal interpreta il capitano Colter Stevens, un marine che, grazie ad alcune oscure possibilità offerte dalla fisica quantistica, viene mandato ripetetutamente in una sorta di universo parallelo, basato su una specie di memoria a breve termine del mondo reale, in cui è libero di muoversi e agire liberamente; in questa realtà virtuale si trova a vivere e rivivere ripetutamente gli otto minuti che precedono il verificarsi di un terribile attentato avvenuto solo poche ore prima nel mondo reale. La sua missione non consiste nello sventare l’attentato, ormai già avvenuto e immodificabile nella realtà, ma nello scoprire l’identità dell’attentatore in modo che le forze dell’ordine possano catturarlo e fermare la sua “scia di morte”. Chiaro, eh? Cervellotico? Forse sì ma non fatevi spaventare perché, se la mia sintesi di pocanzi vi è risultata nebbiosa, gli autori sono stati molto più abili nello spiegare/raccontare tutto il meccanismo e poi, andiamo (!), che gusto c’è nel vedere un film di fantascienza senza dover rimanere concentrati e senza spremersi le meningi?

Insomma la complessità non è certo il punto debole del film (e, a parer mio, non è mai un punto debole), lo è al contrario proprio la semplificazione eccessiva di alcune componenti essenziali della narrazione come la crescita interiore dei personaggi e, in particolare, le loro reciproche relazioni. Alla fine del film scopriamo infatti che il protagonista avrà sorprendentemente instaurato dei legami saldissimi con altri personaggi, che all’inizio della storia erano dei completi sconosciuti, senza che noi spettatori ce ne fossimo minimamente accorti o che se ne riesca a comprendere i motivi. Un paio di dialoghi un po’ più personali, che a parer mio erano ancora al livello “rompere il ghiaccio”, onestamente non mi sembrano sufficienti. In definitiva Source Code è un film che svela un po’ i punti deboli nella poetica di Jones (e dello sceneggiatore Ben Ripley), che con Moon aveva in mano una storia con praticamente un solo personaggio, estremamente più semplice dal punto di vista dello sviluppo narrativo, ma che ne rimette in evidenza anche i punti di forza, sempre legati al genere fantascientifico. Il ragazzo ha margini di crescita.

Source Code – USA, Francia, 2011
di Duncan Jones
Con Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga
01 Distribution – 93 min.

nelle sale dal 29 aprile 2011

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