L’amore che non muore

È raro ritrovarsi tra le mani una nuova edizione di un romanzo italiano del 1800. Sembra quasi che l’Italia abbia preferito dimenticare, o punire per una colpa sconosciuta, i suoi numerosi artisti e letterati. Forse perché, ormai, è diventato più semplice leggere le traduzioni, scritte in italiano standard, degli scrittori stranieri piuttosto che confrontarsi con la nostra lingua, ma nella sua versione letteraria di uno o due secoli fa. Chi non si lascia spaventare da qualche termine desueto o da qualche grafia alternativa, vedrà premiata la sua buona volontà riscoprendo una lingua dalle infinite sfumature, plastica e mobile, mirabilmente precisa; una lingua rispetto a cui quella che parliamo oggi non è che una lontana e scialba parente.
Per superare almeno in parte la diffidenza del pubblico, l’editore Donzelli ha pensato di dare qualche spolveratina qua e là, trasformando i «giuochi» in «giochi», la «ciera» in «cera» e gli «aperse» in «aprì». Non siamo sicuri che De Roberto avrebbe apprezzato il restyling, ma, se serve a raccogliere più lettori, ben venga.

Il libro viene presentato come il primo romanzo investigativo della letteratura italiana. E, difatti, anche se Spasimo è ben lontano dai modi e dai ritmi dei romanzi gialli a cui siamo abituati, tutto ruota intorno ad una morte violenta e alla relativa indagine del magistrato. Il modello anglosassone non aveva, all’epoca, ancora monopolizzato la storia di delitti e l’esperimento di De Roberto ha un sapore al cento per cento italiano, anche se la storia si svolge in Svizzera. Il protagonista, infatti, l’integerrimo Francesco Ferpierre, non compie altra azione se non quella di pensare e, al più, di parlare con i sospettati. Potremmo quasi definire Spasimo un romanzo poliziesco-filosofico.

Cercare le prove, peraltro, sarebbe inutile. Non ce ne sono, tutto è avvenuto in pochissimi minuti e, secondo Ferpierre, solo un’attenta riflessione sulla personalità e sulle motivazioni tanto della vittima quanto dei possibili carnefici può condurre alla verità. Ma cosa è accaduto nella tranquilla cittadina svizzera di Ouchy, nella Villa dei Ciclamini?
Il rumore improvviso di uno sparo fa accorrere la servitù nella camera da letto della padrona. La contessa Fiorenza D’Arda giace sul pavimento ancora calda. Nella mano stringe una piccola pistola, sulla sua tempia sboccia un fiore rosso sangue. Nella stanza sono presenti il principe russo Alessio Petrovich Zakunine, amante della contessa, e una sua giovane connazionale, Alessandra Natzichev che sembra non avere alcun legame con la morta. Tutto parla di un tragico suicidio ma, poco dopo, giunge sulla scena anche Roberto Verod, initmo amico della contessa che, senza esitazioni e contro ogni apparenza, accusa Zakunine di omicidio.
A Ferpierre, decisamente poco entusiasta di occuparsi di questa spinosa questione, non resta che aprire l’indagine; indagine che conduce a tavolino usando esclusivamente l’arma della logica. Animato da un’antipatia di vecchia data nei confronti di Verod e da vero disprezzo verso Alessio Petrovich (uomo bellissimo e violento, leader attivo del partito nichilista), il magistrato si ritrova, suo malgrado, emotivamente coinvolto nell’enigma dopo aver letto il diario della donna morta. Non è più solo l’amore per la verità a guidare Ferpierre ma una sorta di delicata infatuazione nei confronti di Fiorenza D’Arda, a cui l’uomo vuole a tutti i costi rendere giustizia.

Può davvero essersi suicidata una donna di animo nobile e dalla religiosità profonda come la contessa D’Arda? Può aver commesso un delitto passionale Alessio Petrovich che pure aveva abbandonato da mesi Fiorenza per dedicarsi a numerose avventure galanti? Chi è realmente Alessandra Natzichev e come mai si trovava alla villa dei Ciclamini con Zakunine? E Roberto Verod ha davvero motivi per accusare Zakunine o è solo una folle gelosia a farlo parlare?
Questo è il rebus su cui si arrovellano Ferpierre e il lettore, scomponendo e ricomponendo le tessere del mosaico fino a trovare una soluzione soddisfacente.
De Roberto si muove talvolta sul confine che separa un buon romanzo psicologico dal noioso polpettone, ma riesce a non oltrepassarlo mai e a conservare l’attenzione del lettore grazie alla costruzione di personaggi solo all’apparenza semplici e quasi stereotipati, ma che si rivelano tutti, gradualmente, molto più ricchi e sfaccettati.
La forza narrativa di Spasimo risiede, dunque, proprio in questo strano quadrilatero di protagonisti che si dimostrano tutti, ognuno a proprio modo e nonostante le numerose ombre, delle «anime belle», capaci di sentimenti intensi e totali. Persino sul controverso Zakunine lo stesso Ferpierre sarà costretto, in parte, a ricredersi.
Agli appassionati della storia investigativa classica – con rigorosa ricerca delle impronte digitali e delle orme di scarpa numero 42 – resta la soddisfazione di scoprire che l’indagine tutta teorica di Ferpierre porterà alla conclusione sbagliata. Ciò che è accaduto davvero nella villa rimarrà, per qualche tempo ancora, un segreto di quelle quattro anime ferite, che troppo hanno amato, fino a straziarsi. È solo l’amore, infatti, a muovere le azioni in questa tragedia e a legare tra di loro i quattro personaggi; quell’amore che toglie la ragione e che, non potendo trovare appagamento, si tramuta in dolore, in spasimo.
Un romanzo breve e originale che porta, quasi inevitabilmente, a riflettere sulla propria vita e sui propri sentimenti, e a chiedersi se non sia accaduto anche a noi, almeno una volta, di amare la persona giusta nel momento sbagliato.

Titolo: Spasimo
Autore: Federico De Roberto
Editore: Donzelli
Dati: 2010, pp200, € 22,00

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