Rendere pop il rock – la lezione di Spiritualized e Lotus Plaza

Ci sono nomi che col concetto di easy listening hanno davvero poco a che fare. Soprattutto se se ne ricostruisce la carriera, si vede da dove vengono e quale strada hanno percorso per arrivare dove sono. E ce ne sono altri invece che, pur non avendo alle spalle vagonate di esperienza, per come li conosci tu, per quel  poco che li conosci, non avresti mai immaginato che potessero cedere al tanto vituperato  – dagli altri –  pop. A un approccio pop. E invece.
E invece eccoli che ti cambiano le carte in tavola e ti spiazzano, sia l’uno, che l’altro. Ti spiazzano però rimanendo fedeli alla loro identità, lo senti che sono loro, te ne accorgi fin da subito (se ne parlava qui, ricordate?). Ma allo stesso modo capisci che stai ascoltando qualcosa di diretto, senza fronzoli o concessioni alle sperimentazioni, qualcosa che arriva di prima, a te, che sei l’ascoltatore e non hai bisogno di nessuna sovrastruttura per decifrare, per entrare, per scardinare: ne vieni semplicemente conquistato.
Sto parlando di due artisti e di due album importanti, almeno in questo qui e ora: Spiritualized e Lotus Plaza. La loro musica è distante anche se entrambi gli approcci affondano le proprie radici nel territorio comune della psichedelia. Ma è il risultato, per il contatto che instaura con l’ascoltatore, che rende i dischi di Spiritualized e Lotus Plaza figli della stessa stella.

Gli Spiritualized, moniker dietro cui si nasconde il geniale e umbratile Jason Pierce, sono già un pezzo di storia del rock. Sia per il passato di Jason, co-fondatore insieme a Peter Kember – meglio conosciuto alle cronache come Sonic Boom – dei gloriosi (e acidi, e psichedelici, e punk) Spaceman 3, sia per la storia della band che in questi anni ci ha regalato dischi di elevata fattura a cominciare da Ladies And Gentlemen We Are Floating In Spaces (Dedicated/Arista, 1997). Ora, con alle spalle una morte scampata più volte – la più recente nel 2005 quando per una polmonite il nostro se l’era vista davvero brutta – Jason e i suoi Spirtualized tornano con Sweet Heart Sweet Light (Fat Possum, 2012) un disco, lo diciamo subito, bellissimo. Le asperità acide sono smussate, prevalgono più i suoni black che perfettamente si mischiano alle chitarre elettriche e ai droni mantrici a cui gli Spiritualized ci hanno abituati. La forma canzone, anche nei pezzi che sforano i cinque minuti di lunghezza ( e sono tanti: Hey Jane, Get What You Deserve, Headin For The Top Now, Mary e So Long You Pretty Thing ), si fa più chiara ed evidente, ricalcando, come da poetica, le strutture della preghiera.

https://player.soundcloud.com/player.swf?url=http%3A%2F%2Fapi.soundcloud.com%2Ftracks%2F37223450 Spiritualized ‘Hey Jane’ by Spiritualized

Anche nelle tematiche questa forma-preghiera è ben evidente. Atto di comunicazione antico, comune trasversalmente a tutte le culture umane, Jason Pierce se ne fa alfiere e padrone nel mondo del rock non solo da un punto di vista musicale (attingendo agli spiritual, ai gospel, al blues ma anche  alle musiche estatiche orientali, alla Nusrat Fateh Ali Kahn, per citare un nome) ma anche da un punto di vista prettamente tematico. Ed ecco che una certa dolce ineluttabilità sulla difficoltà e sulla caducità della vita, degli affetti e dell’amore e di come il dolore sia un inossidabile compagno di strada ammanta musiche e testi, dall’esplosiva Hey Jane, alla cangiante e meravigliosa So Long You Pretty Thing,  divisa in due tempi, uno più intimista e l’altro più pomposo –  proprio come Hey Jane, anche se quest’ultima rimane su bpm sempre molto alti. Invocazione, disperazione, ineluttabilità, tutto questo è ben presente nei testi a cui fa da contraltare la musica, spesso allegra (Hey Jane, Little Girl, I Am What I Am, So Long You Pretty Things),  altre volte dolce (Too Late, Fredoom, Life Is A Problem) o ipnotica (Get What You Deserve, Headin For The Top Now, Mary) ma che viaggia sempre diretta al cuore dell’ascoltatore. Attenzione a non abusarne (anche se è difficile, molto difficile), potrebbe contagiare.

Il secondo di questa lista è Lotus Plaza, al secolo Lockett Pundt, meglio conosciuto per essere la parte schiva dei Deerhunter. Oscurato nella band di Atlanta dalla prominente figura di Bradford Cox, e cercando in continuazione di nascondersi nei live, Lockett è però autore, a mio avviso, di alcune delle canzoni più belle dei Deerhunter (si prenda, ad esempio, Desire Line dall’ultimo Halcyon Digest). Devo dire però che, dopo averli visti dal vivo (tirano su muri sonori che durano una quindicina di minuti a pezzo) e ascoltati varie volte, mi aspettavo qualcosa di più chitarristico e sperimentale, di più, come dire, onanistico. Invece no, il talento di Pundt è cristallino e in questo Spooky Action At Distance (Kranky, 2012) viene fuori prepotente e prorompente. Il disco si apre, proprio come il sopratrattato Sweet Heart Sweet Light, con un intro strumentale di pochi secondi, dopodiché sono solo buone, ottime, canzoni pop-rock. Sfruttando le sue doti di eccellente chitarrista Lockett lavora sui suoni e sugli intrecci delle linee melodiche, senza eccedere in particolarismi, anzi dimostrando al contempo un’ottima predisposizioni al songwriting. Le canzoni, che superano i cinque minuti in un’occasione sola  (la road song Jet Out Of The Tundra), sono compatte, equilibrate, pop. Il risultato finale è veramente notevole, stunning per dirla all’ingelse, forse enfatizzando un po’.

https://player.soundcloud.com/player.swf?url=http%3A%2F%2Fapi.soundcloud.com%2Ftracks%2F41778519 Lotus Plaza, “Strangers” by selftitledmag

Da Strangers, il cui arpeggio iniziale ricorda i Beach Fossils, a Out Of Touch, con il suo riff acido nel ritornello; da Dusty Roads, ballad elettroacustica, alla trascinante cavalcata elettrica di White Galactic One; da Monoliths, che nell’apertura del refrain mi riporta agli anni ’90 delle Hole e di Malibu (sì, lo ammetto, ho un debole per questa canzone), alla crepuscolare Eveningness; dalla nostalgica e incalzante Remeber Our Days, alla conclusiva Black Buzz, ballata dilatata e onirica che ci congeda degnamente  da un disco curato nei minimi dettagli e allo stesso tempo emozionante e semplice (che è un aggettivo a valenza esclusivamente positiva in questo caso).
Pundt insomma si allontana molto dalle sonorità del primo album (The Floodlight Collective, Kranky 2009), più sperimentale, più destrutturato (per quanto interessante), per andare alla ricerca di qualcosa di diverso, dimostrando un’attitudine al rinnovamento che è caratteristica principe dell’arte e di chi fa arte. Ripetersi è noioso, rinnovarsi è vita.

https://player.soundcloud.com/player.swf?url=http%3A%2F%2Fapi.soundcloud.com%2Ftracks%2F41765972 lotus plaza ‘monoliths’ by kranky

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