Storia semiseria di un ostruzionismo non accertato

Potrebbe diventare una sceneggiatura di un film, con venature di surrealtà, la storia italiana del kolossal su Ipazia. Come è ormai noto, la pellicola sulla vita di Ipazia, Agora, è stata presentata per la prima volta al festival di Cannes nel 2009. Quindi è iniziata la “trafila” della distribuzione, un’avanzata vittoriosa nelle sale di ogni parte del globo, Spagna in testa, tutto liscio, persino a Taiwan, fino alla piccola-grande “soglia di sbarramento”, altezza stivaletto: quell’Italia amore mio, del trio Pupo, Emanuele e il tenore (di cui non si ricorda il nome), che ha in casa tante parabole e altrettanti “parabolani” (leggi fondamentalisti ignoranti e facili a usare le mani ma non per fare la pasta cresciuta), di ogni specie e fattezza.

La vulgata che si è diffusa e ci è piaciuta, e ci siamo raccontati indignati noi spiriti avanzati, è che il film non fosse gradito a qualche parabolano in Vaticano, insomma alle gerarchie ecclesiastiche a cui si addebita ogni censura, cesura, usura dell’idea emancipata e della pasta non cresciuta. E allora il bisbigliare è diventato vociare; voce insistente che i parabolani vaticani avrebbero esercitato pressioni (non digitopressioni) per non far sbarcare il film denuncia di fondamentalismi religiosi e culturali di ogni tipo, con una speciale menzione dei precedenti cristiani.

Allora la breccia di porta Pia non è servita? Italia, amore mio, perché non dai ospitalità a Ipazia? Perché? Non piace forse al pubblico dei reality e degli intrattenimenti in cui mostriciattoli travestiti da bambini cantano la gioia del nulla? Ma davvero è andata proprio così la faccenda? Davvero Ipazia ha subìto un respingimento? E se è così, Michele Santoro dove era, perché non se ne è occupato? O è stato un esorcismo in piena regola da parte di qualche monsignore, vade retro, anzi restaci?

Certo è che  il quotidiano “La Stampa” il 7 ottobre 2009 titolava pessimisticamente, sbagliando la profezia, “Il film che l’Italia non vedrà”, e l’articolo, firmato da Flavia Amabile, ci raccontava di un ostracismo, o meglio di voci su un presunto ostracismo, vista la lunga pausa di silenzio dei distributori, a quanto pare incerti sull’opportunità di piazzare la pellicola in Italia. Fatto sta che il laicato più militante ha lanciato una petizione: liberate Ipazia, la protomartire della ragione e della scienza, femminista ante litteram, più o meno questo il tenore della richiesta, fatela subito arrivare da noi. Detto, fatto: la rete attiva parabole e semina. Sono state raccolte 10 mila firme, e la petizione è stata inviata ai distributori del film (Canal+ España, Cinebiss, Himenóptero, Mod Producciones, Telecinco Cinema, Twentieth Century-Fox Film Corporation). Lieto fine: il 18 marzo 2010 Mikado ha dato l’annuncio atteso. Ipazia è in arrivo, e così è apparsa nelle sale del nostro belpaese. Ed ora possiamo abbuffarci della sua storia.

Ma non sarà che la censura altro non è stata che un’eccellente strategia di marketing? Cosa c’era di meglio nel nostro contesto italiano che vive di ombre, sospetti, partiti presi, pregiudizi armati, propagandare questa versione dei fatti, favola laica perfetta? Fa sempre comodo un Vaticano a portata di mano che intralcia i lavori. Scaltri, i distributori, se così è stato. Cosa c’è di meglio che un bell’ostracismo ecclesiastico a far da spauracchio, rafforzato da un voluto ritardo nella distribuzione per creare quell’orizzonte d’attesa che suscita clamore e risse verbali tra fazioni avverse, per poi sbancare i botteghini? Non si fa che parlare di Ipazia da che è uscito il film. Soppianta persino Fini e Berlusconi che sono stati costretti ad arrivare alla messa in scena degli screzi acidi dei separati in casa per avere un po’ d’attenzione.

Ci pare strano che la Chiesa con tutti i guai che ha in casa propria, pedofili vecchi e nuovi, uno scandalo al giorno e la stampa sempre di torno, abbia il tempo per occuparsi di Ipazia. E che non ce ne voglia il popolo dei liberi pensatori.