Suicidio: ‘possibile categoria antropologica’ di cui si straparla e mai si dice

La versione che risuona come un disco rotto è che sia tutta colpa della crisi: parola caricata di responsabilità gigantesche quanto generiche tra sottintesi e ambiguità. Invece il suicidio, perché di questo si tratta, è solo  uno dei tanti comportamenti possibili nella storia umana, non sempre facilmente ascrivibile a una causa unica, a fattori esterni o patologici né spiegabile a posteriori in base a un criterio di causa ed effetto magari applicando una tesi precostituita. Nei telegiornali, sul web  e “sulle pagine dei nostri giornali si susseguono notizie relative a condotte suicidarie. Ogni nuovo drammatico suicidio spiazza la tragedia poco prima annunciata”. Il continuo avvicendarsi di tali drammatiche notizie non dà modo di risalire dal caso singolo al fenomeno nel suo complesso. Né permette di andare oltre l’immediata risposta emotiva per avviare una riflessione non riduttiva. Intende affrontare le domande connesse al tema, introdurre elementi di chiarezza e individuare percorsi di senso il libro Il suicidio (Carocci editore, 2012, collana Bussole) scritto da Mario Rossi Monti, psichiatra e psicoanalista, con la psicologa Alessandra D’Agostino (il precedente, sempre pubblicato da Carocci, è stato L’autolesionismo).

Lo studio indaga il fenomeno secondo varie prospettive:  storica, antropologica, sociologica, culturale, clinica.  Il dato fondamentale d’avvio azzera credenze diffuse: “ogni anno circa un milione di persone muore per suicidio e un numero venti volte superiore tenta di uccidersi. Questo è il quadro che emerge da una rapida scorsa ai dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2009”. Probabilmente se si leggessero i dati Istat sul caso italiano, si dovrebbero perlomeno rivedere i comuni criteri di valutazione del fenomeno, rimodulare il taglio che viene dato a questo genere di tragiche notizie. Scrivono gli autori: “Nel nostro paese il suicidio è tra le prime dieci cause di morte; ogni anno si muore più per suicidio che per Hiv e per omicidio”. Allora forse si deve prendere atto della profonda complessità di un comportamento “trasversale e globale, che interessa l’Occidente come l’Oriente, la psicopatologia come la cultura e la società intera”. Di fatto è un gesto che trasforma un corpo vivo in un corpo morto e tronca ogni comunicazione. L’unico che potrebbe dare una qualche spiegazione, e non è detto, perché si dà il caso che i motivi del gesto possano rimanere in parte oscuri anche a chi lo compie, è il suicida che diventato però corpo morto, non ha più parola.

Anche dal punto di vista clinico le cose non sono così facili. “Ogni manuale di psichiatria o psicologia clinica dedica un capitolo al suicidio. Un capitolo che occupa una posizione anomala”. Perché? Perché “il suicidio non è una malattia, una sindrome, un disturbo”. Invece è soltanto un comportamento sia pure complesso e pluri-determinato: un punto d’arrivo di storie anche diverse che, nella maggior parte dei casi, riguarda persone che non presentano disturbi mentali. Uno dei più noti suicidologi della scena internazionale, Shneidman ha infatti ‘liberato’ il suicidio dalla coincidenza obbligata con la patologia mentale. E se anche abbia a che vedere con la patologia mentale non è detto che sia quella depressiva a cui viene ricondotto. Jaspers ce l’ha detto oltre a evidenziare che il suicidio può essere “una forma di protesta e di sfida contro una potenza sopraffattrice: in questi casi diventa il modo estremo d’esprimere la più decisa autonomia”. Emblematici in tal senso i casi del grande intellettuale belga Jean Améry, vittima della Shoah, come dello scrittore ebreo Primo Levi. O la vicenda del detenuto irlandese Bobby Sands che si lasciò morire in carcere.

Il suicidio può essere studiato sia come fatto oggettivo (cercando la ricorrenza di variabili) che soggettivo. Può avviare fenomeni di
emulazione come fu dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Goethe nel 1774 e forse anche oggi per altre ragioni. Di interpretazioni del suicidio secondo variabili date a partire da un classico della sociologia quale è lo studio di Durkheim in poi, ce ne sono tante. Resta il fatto che “il suicidio non risponde ad alcuna legge. Siamo comunque condannati a lavorare con ricostruzioni imperfette”. Sempre Jaspers ha dato l’allerta: si può al limite solo ricostruire alcune delle circostanze che lo hanno reso possibile. Può essere dettato dall’esigenza non tanto di abbracciare la morte quanto di sbarazzarsi di un’insostenibile sofferenza psichica che rende la vita insopportabile. E il dolore mentale, di per sé, non è sinonimo di disturbo psichico. Quando “lo stato cognitivo è uno stato di chiusura a imbuto: una visione a tunnel che si accompagna a un brutale restringimento del campo di opzioni possibili”, allora togliersi la vita diventa via di fuga, unica uscita possibile. Ci sono suicidi legati alla cosiddetta new economy: così è stato ad esempio nei casi interni ad aziende come France Telecom (45 suicidi tra il 2008 e il 2010) o Disneyland Paris (3 suicidi di dipendenti nel 2010) a seguito di declassamenti o licenziamenti del personale. A farne le spese soprattutto chi si è identificato con la cultura manageriale dell’azienda al punto di non saper scoprire o riscoprire una propria identità altra e arrivare al grado zero dell’essere. Ogni cultura attribuisce poi un senso diverso al suicidio. Condannato nella nostra società di matrice cattolica, ha invece un significato rituale in altri contesti. Sacrificio in nome di Allah come hanno dimostrato i terribili attacchi terroristici del settembre 2001; dovere coniugale della sposa virtuosa casta e fedele, nel caso del suicidio delle vedove in India; modalità di espiare colpe e ritrovare la purezza per i samurai giapponesi. Diversa la vicenda dei giovani in Giappone che dalla fine degli anni ’90 hanno dato il via a catene di suicidi di gruppo contattandosi e accordandosi via Internet.

A fine volume è ricostruita la storia di suicidi celebri: la scrittrice Virginia Woolf, la poetessa Sylvia Plath, lo scrittore Cesare Pavese, ognuno contraddistinto da una tensione emotiva prevalente. Il senso di vergogna per la Woolf (a cui fu diagnostico postumo un disturbo bipolare); di vuoto per la Plath (che fu invece ricoverata per disturbo bipolare); mancanza di speranza e senso di inadeguatezza totale alla vita per Pavese. Nell’impossibilità di arrivare a una qualche conclusione che valga come spiegazione unica e tantomeno definitiva, per gli autori “è nella libertà che pare risiedere l’origine ultima del desiderio di morte. La libertà di poter scegliere se stessi”. Darsi la morte come possibilità di esercitare la propria libertà. Certo resta incomprensibile nella sua essenza, inaccettabile per chi resta e sconta l’assenza dell’altro a vita. Eppure, malgrado l’incredulità e il dolore seguendo la lezione di Bruno Callieri, dobbiamo mentalmente accogliere l’idea che sia anche “una possibile, seppure estrema, categoria antropologica”.

Titolo: Il suicidio
Autori: Mario Rossi Monti, Alessandra D’Agostino
Editore: Carocci
Dati: 2012, 124 pp., 11,00 €

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