Enjoy the Silence: tutti pazzi per The Artist

Se The Artist, il film di Michel Hazanavicius, non fosse stato in bianco e nero e muto, sarebbe passato quasi inosservato. Dietro questo paradosso si cela il suo crescente successo: trasformare un ostacolo a prima vista insormontabile in un punto di forza. È necessario però fare un balzo indietro. Fu nei primi trent’anni del novecento che si sviluppò il cinema muto. Negli Stati Uniti, a partire da Nascita di una nazione di D. W. Griffith (1915), mise radici un modo di fare cinema narrativo in senso classico, con l’obiettivo primario di far immedesimare il pubblico nella storia. In Europa, registi come Buñuel, René Clair o Ejzenstejn approfondirono di più le potenzialità del mezzo, inserendosi nel solco delle avanguardie artistiche. Nel 1927, Il cantante di jazz di Alan Crosland segnò l’avvento del sonoro. In seguito, un parziale ricorso al muto si potrà registrare in rari film amati soprattutto dai cinefili, come Le vacanze di Monsieur Hulot di Jaques Tati (1953), Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969) o Last days di Gus Van Sant (2005).

Michel Hazanavicius è un regista francese d’origine lettone molto conosciuto in patria, in particolare per i due film della serie OSS 117, parodie delle spy-story alla James Bond. Non si tratta dunque di un autore insensibile ai gusti del pubblico, e nel caso di The Artist, doveva anche tener conto di un cospicuo budget, intorno ai dieci milioni, superiore agli standard produttivi europei. Come districarsi in questo groviglio? Hazanavicius conosce il mestiere, non si tira indietro, sceglie di accettare la sfida rilanciando: 1) il film dovrà essere integralmente muto (fatte salve poche battute nel finale e l’esilarante scena del sogno del protagonista, incapace di proferir parola mentre intorno a lui tutti gli oggetti si animano); 2) il modello di riferimento sarà il cinema hollywoodiano degli anni venti, quello dei grandi Studios che tenevano sotto contratto divi del calibro di Rodolfo Valentino, adorati da schiere di spettatrici; 3) non sarà solo un freddo esercizio di stile, ma dovrà toccare il cuore della platea in sala. Il terzo punto è basilare: non si cerca l’effetto-nostalgia, la commozione per “i bei tempi andati”, ciò che si vuole riprodurre è l’effetto trasmesso da quel genere di pellicola, far tornare gli spettatori nel passato per provare un’esperienza nuova, diversa. Ottenendo, in altre parole, una diversità che attrae anziché respingere. Sotto questo aspetto ha giocato la sua parte anche il destino. A Cannes 2011, dove è stato selezionato in concorso a pochi giorni dall’inizio, l’accoglienza della critica è stata molto calorosa, e l’attore protagonista, Jean Dujardin, ha vinto la Palma d’oro come miglior interprete; in breve The Artist è diventato l’evento del festival, il film da non mancare. Nei mesi successivi si sono moltiplicati i riconoscimenti (tra i quali, lo scorso dicembre, sei nomination ai Golden Globes) e il passaparola su Internet ha fatto il resto.

In sé, la storia di The Artist è semplice. George Valentin (Jean Dujardin), stella del cinema muto, resta spiazzato dal passaggio al sonoro; entra in crisi, perde tutto nel Crack del ’29, divorzia, si rifugia nell’alcol. Prima della caduta, aveva incontrato Peppy Miller (la luminosa Bérénice Bejo) ad un’anteprima, l’aveva aiutata ad emergere e lei in poco tempo aveva spiccato il volo, conquistando il ruolo da protagonista nel primo successo del cinema sonorizzato. I due si sono attratti dal primo istante, ma il destino li ha divisi, e quando accanto a lui rimane solo Uggy, l’inseparabile cagnolino (un prodigioso Jack Russel terrier, vero coprotagonista del film), toccherà a Peppy riportarlo alla vita e al successo. L’accostamento vita/successo non è casuale, anzi, ad essere precisi, in questo caso si tratta proprio di un’identificazione. Così come George Valentin – nell’interpretazione mimetica di Dujardin, con tanto di baffetti neri alla Douglas Fairbanks – è un seduttore “totale”, che in qualsiasi contesto ha un bisogno fisico dell’attenzione di chi lo circonda, allo stesso modo il cinema, inteso nell’accezione che più gli è propria, quella di un’arte popolare che muove notevoli budget, non può prescindere dal consenso del maggior numero possibile di spettatori. George Valentin è il cinema muto americano. Per questo il cagnolino Uggy lo accompagna sul set come nella vita: l’esibizione è costante, non sono ammesse interruzioni dello spettacolo. Così al suo declino subentra l’ascesa di Peppy Miller – modellata su Clara Bow, diva dell’età del jazz – che incarna l’avvento del sonoro. Valentin ha una sola strada per rialzarsi: riprendere a recitare con lei, ritrovare il suo amore e quello dei fan. Non a caso una delle sequenze più riuscite è quella che vede Peppy, quand’era ancora sconosciuta, indossare/abbracciare la giacca di scena di Valentin – perché nemmeno lei può scindere l’Uomo dall’Artista.

Storia e finzione si intersecano nel gioco dei rimandi: torna alla mente Charlie Chaplin, che si arrese a girare un intero film sonorizzato solo nel ‘40, Il grande dittatore; la parabola di Peppy Miller è modellata su È nata una stella di William A. Wellman (1937); nelle scene di ballo rivivono Ginger Rogers e Fred Astaire; il personaggio di Dujardin ha molto in comune col Gene Kelly di Cantando sotto la pioggia (lo si potrà cogliere appieno solo nell’ultima scena), e tra l’altro, volendo abusare del gioco metafilmico, la pellicola di Stanley Donen è ancora evocata dal cameo di Malcom McDowell, l’indimenticato Alex di Arancia meccanica, che reinterpretò Singin’ in the rain in una chiave molto personale.

Ma se dei personaggi, in The Artist, non puoi sentire la voce, di certo puoi leggerne l’anima. L’adozione dei codici di linguaggio del muto porta ad una maggiore significazione delle immagini, la storia è scritta nei gesti del corpo come sui volti dei personaggi – grazie agli insistiti primi piani. Il formato dello schermo in 4/3, i titoli di testa in stile e i cartelli per i dialoghi aggiungono ulteriori dettagli alla confezione. Senza dimenticare la colonna sonora sinfonica che rimarca, puntuale, ogni sbalzo nell’altalena dei sentimenti, spaziando dal mélo alla commedia musicale. Colonna sonora che cita in un brano Bernard Hermann, il compositore preferito da Hitchcock, che fu utilizzato per la scena d’amore ne La donna che visse due volte. Due volte come ogni esperienza prima vissuta e poi raccontata, due volte come il cinema di ieri e di oggi che The Artist, il film in bianco e nero di Hazanavicius, contribuisce a proiettare sul domani.

The Artist – Fancia, 2011
di Michel Hazanavicius
con Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman
BIM – 100 min.

4 thoughts on “Enjoy the Silence: tutti pazzi per The Artist

  • Febbraio 29, 2012 alle 9:24 am
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    Sono d’accordissimo, non fosse stato muto sarebbe probabilmente passato inosservato. Film carino, non male (anche se poteva durare tranquillamente 20 minuti in meno) e molto molto “stiloso”, solo che la scelta del muto, che è il suo sostanziale punto di forza, mi sembra molto fine a sé stessa, come un compito da svolgere per un aspirante regista, non un progetto artistico.
    Insomma, se la gente ha questa gran voglia di vedere film muti (vivaddio!) vedesse murnau, vidor, dreyer, lubitsch, chaplin, keaton che sono mille volte più fighi.

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  • Marzo 21, 2012 alle 8:40 am
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    In realtà la scelta del muto non è assolutamente fine a se stessa. Io credo che la scelta del muto sia molto ben motivata dal significato che l’autore del film vorrebbe dare allo spettatore, e cioè il fatto che così come l’innovazione tecnologica può chiudere delle porte, come è successo al protagonista, può anche aprirne delle altre. E coloro che paiono nati per varcarne solo alcune, di porte, possono invece avere nuovi spiragli, se solo credessero nel Nuovo, e non solo nel Vecchio, per usare Ejzenstejn.

    • Marzo 23, 2012 alle 4:52 pm
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      Pensi che sia nata prima l’idea di fare un film muto o l’esigenza di veicolare questo significato?

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