A January Hymn – tra le campagne dei Decemberists

A volte, dopo le scorpacciate da compilation di fine anno, dopo gli ascolti forzati per non perderti nulla, ma proprio nulla, dell’anno appena passato, hai bisogno di una pausa. Di staccare del tutto e di rimanertene in camera tua ad ascoltare quei dischi che da sempre ormai ti tengono compagnia, quelli che può piovere, nevicare o far tempesta ma sempre lì rimangono.

Oppure puoi consegnarti a band di cui ti fidi, che fanno del classico buon vecchio pop, senza fronzoli o velleità da gruppo del momento. Che lavorano sodo insomma e portano a casa la pagnotta con abnegazione e coerenza. Che se ne infischiano di uscire a gennaio, il periodo forse più temuto dai musicisti, perché l’hype per loro conta ben poco.

E tra questi, di diritto, ci sono i Decemberists, tornati sulle scene con l’ottimo The King is Dead. Se con Hazards of love, disco che aveva deluso molti, il quintetto di Portland si era spinto verso atmosfere diverse da quelle a cui ci aveva abituato, con questa nuova produzione invece si torna all’antica. Ma non a The Crane Wife come molti potrebbero sperare, no, qui si va alle origini. E di cosa? Be’, della musica folk-rock americana.

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The Decemberists – January Hymn by The Drift Record Shop

Rinchiusisi in campagna nella tenuta di Pendarvis Farm, fra prati maestosi e animali allo stato brado (guardate questo video promozionale per avere un’idea), Colin & Co hanno registrato le dieci tracce che compongono questa loro ultima fatica, tutte di chiaro stampo folk, con chitarre acustiche, fisarmoniche, banjo et similia a farla da padrone. Un vero e proprio omaggio alla musica popolare americana sembra venir fuori dalle note di ogni singola canzone. Da Don’t Carry it all, che potrebbe tranquillamente essere stata composta da Neil Young, alla rurale Rise to me, dalla classica ballad January Hymn al singolone alla R.E.M Down by the water (e in effetti un R.E.M ci suona in questo disco, il buon vecchio Peter Buck) per poi chiudere in bellezza con il terzetto rappresentato dalla splendida June Hymn, This is why we fight e Dear Avery. Unica nota veramente stonata appare Rox in the box con i suoi echi irlandesi che io, per contratto, proprio non posso sopportare. Ma sono problemi miei quindi vabbè.

Nel complesso i Decemberists appaiono in ottima forma confermando la straordinaria vena poetica delle loro canzoni e la capacità fuori dal comune di attingere a un ampio retroterra per creare qualcosa di non banale e mai scontato. E poi c’è la mia personale venerazione per la voce di Colin Meloy: ampia, estesa, limpida che ti accompagna per sentieri e campi e che ti culla quando tutto il mondo intorno sembra andare in una direzione diversa dalla tua. È una mia debolezza, lo so, ma in fin dei conti sono contento di averla.

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