Rileggere (ancora) gli ’80 – Fresh & Onlys e Wild Nothing a confronto

All’inizio dello scorso anno sembrava che il revival anni ’80 stesse finendo e che le band si stessero nuovamente dirigendo verso approcci più rock o più dance, esattamente come succedeva nei ’90. E in effetti se guardiamo a dischi come quelli dei Cloud Nothings o Yuck o alle varie reunion di Pavement, Dinosaur Jr fino ai Soundgarden o agli Afghan Wighs la direzione sembrava proprio quella. Ma la realtà è che i ricorsi storici non sono così schematici e temporali. La possibilità, tra le altre cose, di accedere ormai a un archivio vasto quanto tutta la produzione musicale precedente al qui e ora, favorisce un recupero incrociato, dove gli anni ’80 convivono con i ’60 e il punk dei ’70 si mescola alla psichedelia o al grunge dei ’90, fino a commistioni – crossover come si usava dire un tempo – tra elettronica, hip hop ed etnica.
Non si inventa nulla dice Reynolds in Retromania, assistiamo a un mero recupero del passato senza sostanziali elaborazioni. Non sono d’accordo, o meglio, sono d’accordo in parte. Anche Lotman, sfortunato semiologo russo vessato dal regime di Mosca, sosteneva questo, assimilando l’atto creativo “originale” a un’esplosione che propaga le sue direttrici dalla periferia culturale verso i centri, solitamente più conservativi e meno aperti al cosiddetto nuovo. Ma sempre Lotman sosteneva che vi sono due tipi di, chiamiamole così – scusate, vado a braccio, ne viene meno la precisione semantica – rivoluzioni o movimenti culturali: uno più violento, di rottura, e l’altro, invece, più lento, che dal recupero e dalla rielaborazione del passato portano a nuove forme, a nuovi oggetti culturali. Sono i movimenti di assestamento, quelli che, come abbiamo visto prima, spingono le novità verso il centro.
Ora, a mio avviso, viviamo proprio un’epoca in cui, l’impressionante bagaglio culturale dell’uomo è stato messo più o meno a disposizione di tutti (non tutto-tutto, lo so, sto esagerando, ma è per intenderci insomma) e questa fase di ri-elaborazione non può che essere lunga e stratificata, vivere di fiammate e di ritorni, di riprese e cambi di rotta.
Tutto questo per dire cosa? Che ci sono ancora oggi, a inizio settembre 2012, gruppi che degli anni’80 riprendono suggestioni e sonorità senza sembrare solamente dei cloni, riuscendo a portare in superficie elementi nascosti tanto da sviluppare una voce propria, autoriale e sicura di sé. Vediamone due che, con approcci differenti, sono riusciti in questo risultato.

I Fresh & Onlys in realtà non hanno normalmente un sound eighties. Vengono dalla scena garage di San Francisco e sono al loro quarto album in quattro anni. Ma, come anche la biografia dei vari componenti sta ad indicare (ognuno di loro ha svariati progetti musicali e artistici in generale) la band non ama stare ferma. Esplorato quindi l’ambito garage punk nei lavori precedenti, con questo Long Slow Dance (Souterrain Transimission, 2012) si sono rivolti verso atmosfere più cantautoriali, mixando sonorità – appunto – eighties con melodie sixties. Il risultato è spiazzante a un primo ascolto – di sicuro i fan più di vecchia data avranno storto almeno un po’ il naso – ma poi le canzoni prendono corpo, e le melodie si elevano al di sopra di riverberi ed effetti mostrando tutto il loro valore.
20 Days And 20 Nights è il pezzo che dà il la al disco, e sfoggia tutte le influenze che è possibile raccogliere da una ballad elettrica degli Smiths; Yes Or No si muove sulle stesse corde ma con tinte un po’ più scure. Con Long Slow Dance il respiro si allarga e la chitarra acustica solleva la voce baritonale di Tim Cohen verso melodie più smaccatamente americane. Gli Echo & The Bunnyman sono chiamati in causa nella bellissima Presence Of Mind così come Fire Alarm presenta un attacco degno dei Joy Division, mentre Dream Girl riporta la band su influenze più surf, esibite anche in No Regard. Fiati mariachi e atmosfere esotiche tingono di colore la dark ballad Executioner’s Song, mentre in Euphoria viene citato addirittura Billy Idol: un vero proprio inno agli ’80. La chiusa è affidata a due pezzi antiteci, la lunga e chitarrosa Foolish Person e invece la troppo breve Wanna Do Right By You che conquista in un istante con i suoi coretti e la melodia classicheggiante e che altrettanto in un istante finisce mentre tu vorresti che non terminasse mai.

Discorso leggermente diverso va fatto per Jack Tatum, al secolo Wild Nothing,che con gli anni ’80 si sporca le mani dal folgorante esordio di qualche anno fa – Gemini prima (Captured Track, 2010) e il seguente bellissimo ep Golden Haze (Captured Track, 2010) poi. Il suo è un pop crepuscolare pieno di riverberi, canzoni oniriche dalla struttura rarefatta, adatto per lunghe passeggiate in solitaria e notti insonni. E a ben vedere, se teniamo presente il titolo del disco, Nocturne (Captured Tracks, 2012), e Shadow, il pezzo iniziale che tanto ricorda Chinatown, Tatum non sembra essersi spostato molto. Almeno apparentemente. Perché subito dopo, quando si entra nel vivo dell’album con Midnight Song si comprende che qualcosa è cambiato: le melodie urgenti e dirette scompaiono a favore di una forma canzone più complessa e studiata. Le suggestioni rimangono le medesime ma è come se Tatum fosse andato più in profondità. La title track, Nocturne, si muove sulla strada tracciata da Midnight Song mentre Only Heather squarcia le nubi addensatesi in precedenza risultando uno degli episodi più coinvolgenti del disco. Disappear Always si muove sull’orlo del sogno esattamente come è fisica l’empatia che si prova con Paradise, ballad elettronica spessa e morbida come il velluto. Wild Nothing ha scritto un disco sicuramente meno immediato del precedente ma che attraverso una composizione più consapevole e matura, sposta di una tacca più in là la propria ricerca sonora alle radici della notte e del sogno. Dream Pop, come si suole – o soleva – dire.

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