L’animale che mi porto dentro

Se pensate che il peccato capitale della narrazione di genere sia amoreggiare troppo esplicitamente con i cliché, di fronte alla storia di Michael Winterbottom (tratta dal romanzo omonimo di Jim Thompson) potete restare tranquilli. Niente vicoli bui, strade bagnate di pioggia, sigarette fumate alla luce fioca di un lampione che emerge dalla nebbia: questa storia cruda, truce e destabilizzante si svolge dove meno ve lo aspettereste, ovvero nell’assolatissimo Texas degli anni’50.
I personaggi coinvolti in questa conturbante vicenda si muovono in un microcosmo di cappelli da cow boy, sigari vistosi e mito della «rispettabilità»; in uno di quei paesini che, da piccoli centri degradati, si sono trasformati in oasi del benessere economico, investiti – per non dire travolti – dalla ricchezza che cola giù dalle miniere di oro nero che svettano alte e arroganti nel cielo.

I titoli di testa di questo film meritano una menzione a parte. La loro grafica pop trasporta subito, e con grazia, lo spettatore nell’adeguato contesto culturale; ruolo svolto con altrettanta efficacia anche dall’ottima (e talvolta persino ironica) colonna sonora.
Una volta entrati nella storia vera e propria è subito chiaro che, in questo film del controverso regista inglese, ogni cosa ruota intorno ad un unico personaggio: il giovane vice sceriffo Lou Ford. I suoi problemi, le sue ossessioni e il suo, distorto, punto di vista invadono lo schermo e lo occupano completamente e prepotentemente.

Winterbottom cerca, in questo, di mantenersi fedele allo spirito del romanzo di Thompson (pubblicato in Italia da Fanucci Editore) che narra le vicende di un killer sociopatico in prima persona. A chi ha appena sollevato le sopracciglia con sufficienza catalogando questa soluzione come “già vista e già sentita” è opportuno ricordare che Thompson ha scritto il suo libro agli inizi degli anni’50, ben prima dei vari American Psycho o dell’esercito di killer efferati (e spesso immotivati) che sono passati sugli schermi negli ultimi 20, 30 anni.
Ma torniamo a Lou. Il giovanotto ha la classica faccia da bravo ragazzo, un lavoro poco gratificante e una fidanzata storica (Kate Hudson). Sembra una persona incapace di negare un favore a qualcuno e, a dire il vero, non ha nemmeno un’espressione troppo intelligente.
Un giorno (solo apparentemente) come un altro, Chester Conway, magnate dell’edilizia e del petrolio nonché padrone assoluto della città, incarica la polizia di sfrattare una prostituta che sta circuendo il suo giovane, e inetto, rampollo.
Lo sceriffo affida l’incarico a Lou, non sembra una questione complicata e poi c’è da guidare fino a fuori città e lui non ne ha affatto voglia. Ma dal momento in cui Lou varca la soglia di quella piccola casa la sua vita viene sconvolta, o, forse, trova la sua vera strada.
Lou cerca di svolgere diligentemente il suo compito e di convincere Joyce a fare la valigie. Ma la ragazza oppone resistenza e la tensione, erotica e fisica, che si crea tra l’uomo e la prostituta (la bellissima Jessica Alba) scatena una parte della personalità di Lou che da troppo tempo il ragazzo reprimeva con la sua condotta più che ineccepibile. Riemergono frustrazione, violenza, tendenze sadomasochiste e, infine, la tentazione atroce di distruggere ogni cosa, anche, o soprattutto, ciò che si ama.

Lou si innamora di Joyce e, insieme, progettano di truffare il figlio di Conway.
Ma chi è davvero Lou Ford e quali esperienze hanno gettato nel suo animo dei semi così drammaticamente velenosi? Il pubblico deve cercare di intuirlo raccogliendo allusioni e frammenti di conversazioni. Quello che si deduce dai discorsi di Lou con gli altri personaggi è che, in realtà, il nostro vice sceriffo ha più di qualche motivo per volersi vendicare di Chester Conway, magari proprio attraverso suo figlio. Gli antefatti che hanno originato un odio così profondo (anche se rimasto celato per anni) compaiono nel film come una nebulosa vaga e confusa e questa è forse la più grossa (ma non certo la sola) pecca strutturale del film. Dopo un attento lavoro di ricostruzione possiamo solo supporre tutto ruoti intorno ad un fratello adottivo di Lou, colpevole di stupro nei confronti di una bambina e morto in circostanze misteriose, probabilmente per mano dello stesso Conway.

Considerate queste premesse, il pubblico inizia a sospettare che Lou stia preparando uno scherzo piuttosto pesante al giovane Elmer Conway e che non voglia affatto limitarsi a truffarlo;  quello che il pubblico, invece, non si aspetta è la fuoriuscita inattesa e spaventosa della parte peggiore di Lou, della bestia affamata di dolore e distruzione che da sempre vive dentro di lui e che le violente emozioni degli ultimi giorni hanno liberato.
Inizia così un vortice di orrore e sopraffazione che Lou non è assolutamente in grado di tenere a freno e su cui Winterbottom ha un certo piacere a soffermarsi con dovizia di dettagli. Il criminale prende il sopravvento sul vice sceriffo e la sua vita schizza via veloce come su un piano inclinato, senza che alcuna ragionevolezza possa più fermarlo. Lou, infatti, non è un freddo serial killer ma una vera e propria bestia posseduta dal demone dell’annientamento e, proprio per questo, è incapace di nascondere convincentemente le prove della sua colpevolezza. Ci vogliono solo pochi giorni prima che la cittadina identifichi proprio nel “buon Lou” il responsabile di tanti omicidi senza ragione. Ma forse era proprio questo che Lou desiderava.

A sentire le interviste di Winterbottom, sembra che ciò che lo ha affascinato di questa storia sia stata, soprattutto, la complessità di Lou, la sua duplicità, la sua capacità di essere un bravo ragazzo e, allo stesso tempo, un potenziale feroce assassino. Ripensando alla pellicola, infatti, uno dei momenti più intensi è proprio quello in cui il vicesceriffo spiega la sua condizione con un’efficace metafora: è come se, sin da quando era piccolo, gli avessero inchiodato un piede al di qua di uno steccato e uno al di là. Non può muoversi, non può passare da una parte o dall’altra. È condannato a rimanere dilaniato, nel mezzo. Finché non si spaccherà.

Ma, al di là di questo efficacissimo guizzo dal sapore prettamente letterario, ciò che manca al protagonista di Winterbottom (Casey Affleck in una buona prova interpretativa) è proprio questo spessore, questo essere un paradosso vivente. Lo spettatore vede quasi solo un assassino che cerca di sembrare un brav’uomo e mai un brav’uomo che, suo malgrado, è anche un assassino.

Bisogna ammette che l’obiettivo era davvero difficile e che, in generale, The killer inside me è un buon prodotto cinematografico. Bella fotografia, buoni attori, una regia intelligente e, per finire, qualche indugio nella violenza gratuita che, di questi tempi, fa vendere qualche biglietto in più.
Forse, date le premesse, ci aspettavamo qualcosa di meglio ma, tutto sommato, questo film potrebbe meritare una visione.
A digiuno, però, mi raccomando.

The killer inside me – 2010
USA, SE, GB, CA – 109 minuti
di Michael Winterbottom
con Casey Affleck, Kate Hudson, Jessica Alba
BIM distribuzione
nelle sale dal 26 Novembre 2010

tratto dal romanzo
The killer inside me di Jim Thompson