Tolstoj è morto. Sua moglie è vittima di un sadico benefattore dell’umanità

In una notte autunnale un vecchio con la complicità di due donne, una è sua figlia, prende le valigie e scappa dalla casa natale. Fugge dal suo mondo, dalla sua terra, dai suoi libri, da abitudini e riti quotidiani di una vita, dalla famiglia, ma soprattutto dalla moglie. La sua è intenzionalmente una fuga dalla moglie, proiezione di tutti i mali possibili e di una crisi spirituale di ritorno.

Di fatto è una fuga dalla propria storia: 48 anni di matrimonio e 13 figli (ridotti a sette dal gioco del destino), che quella moglie gli ha dato. È una fuga da una propria insanabile dualità antica tra il coinvolgimento pulsionale e il distacco, da una identità irriducibile e umorale che da sempre si muove come su un’altalena a scapito di chi gli sta intorno, specie una moglie. Sembra romanzo ed è biografia, la parte terminale di una biografia illustre. Questo vecchio di 82 anni non è il signor uomo qualunque. Si chiama Lev Nikolaevic Tolstoj, è il grande scrittore della grande madre Russia, il creatore di Guerra e Pace e di Anna Karenina, l’aristocratico dalla visione progressista della storia e delle classi sociali, amato dal popolo, dai contadini, origine in lui di una vocazione oltre che narrativa, pedagogica. Per i figli dei contadini nella sua tenuta di Jasnaja Poljana ha aperto una scuola e a loro ha dedicato negli anni parte del suo impegno. Ora però fugge e basta. Ma in treno si sente male. Febbre alta, polmonite, il cuore debole. É costretto a scendere alla stazione di Astapavo, sperduto villaggio dello sterminato impero russo, che diventa all’improvviso centro del mondo, e tale resta fino all’epilogo della vicenda. Viene accolto nella modesta abitazione del locale capostazione, incredulo che lo scrittore più famoso al mondo sia in casa, nella sua stanza, nel suo letto. In questa località sconosciuta, si svolge per alcuni giorni una tragicommedia estrema che si conclude il 7 novembre 1910 con la morte di Nikolaevic. Intanto, dal momento dell’arrivo del grande vecchio tra il 27 e il 28 ottobre, complice il telegrafo che propaga le notizie su scala planetaria, si scatena il finimondo. Ad Astapovo accorre la Russia tutta. La polizia segreta che fin da subito è a conoscenza dei suoi spostamenti e gli sta addosso perché lo teme: è l’uomo delle invettive anti-nobiliari e la sua presenza potrebbe scatenare insurrezioni popolari. Si precipitano sul posto i giornalisti, la stampa, fotografi e anche videoreporter della prima ora: occorre stare sulla notizia e diffonderla in tutte le salse. Poi ci sono politici, rappresentanti governativi, preti, medici, curiosi. Arrivano amici e discepoli. Arriva la famiglia. E lei, la moglie, Sof’ja Andreevna Tolstaja, la figlia del medico di corte sposata tanti anni prima, a cui però è proibito vederlo fino all’ultimo.

“Tolstoj è morto”, è il libro dello scrittore russo naturalizzato francese Vladimir Pozner pubblicato da Adelphi nell’accurata traduzione di Giuseppe Girimonti Greco che ci racconta tutto questo delirio collettivo e individuale.

Tolstoj è l’inventore della morte in diretta. Senza volerlo, lo scrittore ha sceneggiato l’ultima parte della sua vita e la sua morte, e si è reso immortale più dei suoi romanzi. Tolstoj ha “inventato” la messinscena e spettacolarizzazione della morte in chiave moderna, anticipando qualsivoglia diretta tv, grande fratello, reality. Come fosse una pop star. E nella ricostruzione esatta dei suoi ultimi giorni di vita, Pozner a sua volta inventa un nuovo genere letterario: sequenze di cronaca fitta, come un montaggio martellante da dare in pasto a un telegiornale vorace di notizie, aggiornamenti flash continui sulla disputa vita/morte in atto in quei giorni nell’illustre paziente, si alternano a stralci di diari e lettere che ci raccontano gli alti e bassi di una vita matrimoniale, il punto di vista di lui, ma soprattutto quello dell’amata/odiata moglie. “Tolstoj è morto” fu scritto nel 1935 per porre fine a dicerie, leggende, e ristabilire la verità sulla fine dello scrittore facendo parlare i fatti attraverso un ricchissimo materiale: dispacci telegrafici, articoli, rapporti di polizia, bollettini medici.

Il libro racconta un mondo caricaturale che è il nostro: giornalisti che utilizzano  astuzie e trucchi del mestiere per carpire le notizie sul malato anche dai familiari più stretti, per arrivare primi sulla notizia fino ad annunciare la morte quando il malato è ancora in vita, e se le notizie si affievoliscono rimpastano il materiale che hanno. Polizia, guardie, burocrati governativi che complottano piani per arginare il sovversivo, anziano e costretto in un letto, perché non si sa mai quale ribellione di popolo possa scatenare la sua sola presenza. Preti fanatici che gli stanno addosso perché lo scomunicato si redima e muoia riconciliato con la chiesa, cosa che non accadrà. Il malato che è convinto di essere in incognito, che la moglie non sappia di lui e non ci sia, ma quando apprende che è scoperto e c’è tutto il mondo fuori la casetta rossa si disinteressa e non vuole gli vengano letti i giornali. Questa la cornice. Però poi c’è lei, vera eroina tragica di un dramma smisurato non scritto, eccetto che nei diari privati. Certo lui, il grande pensatore, il filosofo sociale, attira su di sé tutte le attenzioni, come è sempre stato, anche di più stavolta perché l’ultimo colpo di testa l’ha posto alla ribalta, perché c’è l’imprevisto e muore davvero. Ma il libro di Pozner sembra ristabilire le proporzioni e la verità di un rapporto coniugale malato, impari. Lui, il teorizzatore dell’ideale comunità contadina, l’artefice dei grandi affreschi sociali, l’analista dei rapporti coniugali, la voce di Anna Karenina, sembra essere nella vita privata banalmente un essere insensibile, anaffettivo si direbbe oggi, pieno di sé e basta. La moglie merita interesse come oggetto sessuale, altrimenti c’è distacco, disinteresse, indifferenza, quindi fuga. Quanto codificato nella Sonata a Kreutzer, l’amore coniugale è da scansare a favore di una ascesi di stampo cristiano, alla fine Tolstoj lo attua. Lui pensa, crea e si apparta nel corso di una vita insieme. A lei toccano le fatiche multiple, la cura della casa, dei figli, la depressione di una donna lasciata sola, la gelosia e la maniacalità ossessive che il sadismo di lui alimenta negli anni della vecchiaia così da poter proclamare la ragione delle sue tesi sul matrimonio. Il libro ci racconta la disperazione della solitudine coniugale. Scrive lei: <Oggi nel trascrivere il diario di Levocka, mi sono imbattuta nel seguente brano: “L’amore non esiste. Esistono solamente l’esigenza carnale della copula e quella razionale di avere una compagna di vita”. Se avessi letto questa massima di L.N vent’anni fa, non l’avrei mai sposato> (Diari, 1890).

L’ossessione di Tolstoj di abbandonare la famiglia, è una costante dall’inizio, una minaccia che aleggia nell’aria domestica e infine si avvera.  “é una cosa spaventosa, terribile, insensata, affermare che la propria felicità è fatta di contingenze puramente materiali: una moglie, dei figli, la salute il benessere. Il povero folle di Dio ha ragione: si possono avere una moglie, dei figli, la salute e tutto il resto, ma la felicità non è questo”, scrive lui nei Diari, anno 1863, Invece lei: “Non faccio altro che svezzare, allattare, disinfettare e medicare; e non è finita: devo badare ai bambini, pensare alle confetture, alle conserve, ai dolci, al lavoro di copiatura per Leva…(Diari, 1866). E ancora: “Ci capita così di rado di parlare un po’. Io vivo solo per i figli ripiegata sulla mia insignificante persona”. (Diari 1867, pag. 44).

È un personaggio anche più tragico di Anna Karenina Sof’ja e i pezzi del suo diario che Pozner ha trascritto sono una fitta di dolore continuo. “Oggi ha proclamato che il progetto che accarezza con maggior piacere è quello di abbandonare la famiglia. Neanche sul letto di morte potrò dimenticare questa sua schietta dichiarazione che mi ha trafitto il cuore”. (Diari, 1882, pag. 81) Scrive lui: “Lei sarà fino al momento della mia morte, come una macina appesa al mio collo e a quello dei figli. Evidentemente è inevitabile che sia così. Bisogna imparare a non annegare con una macina al collo. E i figli? Forse tutto questo è necessario. Io soffro solo perché sono miope. Ho dovuto calmarla come fosse una malata di mente” (Diari, 1884, pag. 83). Ma anche a lei lui sembra un pazzo e scrive a una amica: “Mi rendevo conto chiaramente che avevo a che fare con un pazzo”. L’esistenza di lei è fatta di paure: paura di rimanere incinta ogni mese, paura di essere abbandonata, paura che lui muoia lontano da lei. L’esistenza di lui è fatta di scontrosa e crescente separazione, contraddetta da pulsioni sessuali, in nome di un ideale di perfezione cristiana: “La convivenza con una donna che mi è spiritualmente estranea, cioè con lei, è terribilmente disgustosa” (Diari, 1884, pag. 83). Sof’ja profetizza la sua stessa sciagura: “Quando avrà vissuto fino in fondo la sua vita amorosa con me si limiterà, cinico e spietato, a estromettermi dalla sua esistenza” (Diari, 1891, pag. 133). E ancora: “Per lui l’universo si riduce a ciò che ruota intorno al suo genio e alla sua opera; da ciò che lo circonda prende unicamente quello che può servire al suo talento e al suo lavoro. Il mio destino è di essere soltanto la segretaria di un marito-scrittore” (Diari, 1897). Lei pensa più volte al suicidio e quando i familiari chiamano uno psichiatra le viene diagnosticata una forma di delirio paranoico. Lui non può ammalarsi, è troppo preso da sé per rischiare turbe mentali, oltre la condanna: “é così penoso vivere in questa casa di matti”, scrive nel Diario per me solo del 1910 (pag. 186). Così scappa ma la morte lo prende a sorpresa e quando Sof’ja è ammessa al capezzale, lui non la riconosce. E l’unico commento di Pozner è : “Tolsoj è morto così come era vissuto: assente”. (pag. 205). E lei che non è altro che una vecchia curva e scarmigliata, bacia il morto, spera sia ancora vivo, e lo chiama teneramente anima mia, amico mio, amore mio, vita mia. Easurita la tragedia, Astapavo, torna al buio. Il telegrafo si interrompe. Sof’ja Andreevna Tolstaja segue il feretro del marito finché può. Poi torna al buio, anche lei. Le opere letterarie che più ci danno godimento estetico e anche sollievo etico, qualche volta sono sorte su macerie coniugali e familiari. I grandi scrittori sanno essere grandi cannibali in vita.  Sof’ja Andreevna Tolstaja si è immolata alla causa del  creatore in terra, eccetto poi riprendersi i suoi spazi di personaggio letterario che suo marito non è stato in grado di inventare.

(La traduzione è di Giuseppe Girimonti Greco. La consulenza è di Valentina Parisi, la cura redazionale di Valeria Perrucci)

Titolo: Tolstoj è morto
Autore: Vladimir Pozner
Editore: Adelphi
Dati: 2010,  274  pp., 18,00 €

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