Tornano le sartine a fare mille mossettine

Può non pesarmi molto aver smesso di essere imperatore romano, ma mi può far male non avere mai parlato alla sartina che verso le nove, svolta sempre l’angolo sulla destra. (Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Ecco la vera trasgressione: tenere l’ago in mano e non limitarsi solo a tenerlo. Attaccare un bottone, fare un orlo, manipolare stoffe e vecchi abiti, principi di Galles o di altre casate, rivoltarli da cima a fondo e creare persino qualche piccolo capolavoro. In questi ultimi tempi c’è toccato di vedere e ascoltare il peggio del peggio, a tal punto deteriore che il solo ricapitolarlo a mente ci fa sentire peggiori. Ne consegue che se siamo sopravvissuti a tutto il mercimonio e bazar di carni, ben altra per noi è l’idea della trasgressione e del trasgredire. Ecco perché siamo sobbalzati sulla sedia quando casualmente, tramite il dio facebook che tutto contiene e fagocita, ci siamo imbattuti in quest’iniziativa: “Riciclicucito”, un workshop che si svolge a Milano ed è organizzato dall’associazione Anfiteatro laboratorio, attiva in ambito artistico e creativo. Di sicuro a svolgere una mini indagine si potrebbe scoprire un’Italia di sartine o aspiranti tali (anche se i cartamodelli non si usano più) che, sia pure parcellizzata e mutata antropologicamente, sopravvive alle facili lusinghe, e ama frequentare corsi di taglio e cucito. Non sarà l’unica del genere, ma questa iniziativa ci è piaciuta subito perché ci ha dato lo spunto per tentare una piccola analisi longitudinale ispirata ai costumi o meglio agli abiti scuciti e ai buchi nei calzini e oltre. L’idea di Riciclicucito è venuta a Belma Salihovic e Arianna Mazzoleni, due giovani stiliste che provengono dalla scuola sartoriale della Scala di Milano. Hanno ideato il loro marchio Aribel e poi il laboratorio le cui partecipanti sono tutte donne tra i 25 e i 35 anni senza alcuna esperienza, ovviamente. Non sanno tenere l’ago in mano. Circostanza fondamentale che in altri tempi sarebbe stata spia di una mediocrità “muliebre”; oggi è simbolo di un’emancipazione del femminile da retaggi domestici. Interessante è l’obiettivo del corso legato a una volontà di riscoprire l’economia domestica, sia pure in ambiti familiari imprevedibili, singoli o allargati, mutati e sempre mutanti: rinnovare il proprio guardaroba con fantasia e a costo zero modificando e rimodernando con semplici mosse i vecchi abiti. In un certo senso si accorciano le distanze con un’epoca in cui il consumismo non era esploso, il risparmio era fondamentale, niente andava sprecato, rivoltare giacche e cappotti era virtuosa pratica ordinaria. Certo nell’Italia postunitaria e proto industriale, cucire più che una vocazione era una scelta obbligata perché la donna era incastrata nella fissità di ruoli: moglie, madre, casalinga e sarta o meglio sartina. Con le dovute differenze, la filosofia che ispira l’iniziativa è di economia ma anche ecologia domestica perché sposa un modello di decrescita economica e abbraccia comportamenti consequenziali: non c’è più bisogno di spendere per rinnovare l’armadio, non c’è bisogno di consumare per coazione a ripetere, basta avere una conoscenza base del cucito, un po’ di creatività, spirito d’iniziativa e non più per costrizione al ruolo ma per sentirsi capaci di produrre in proprio ed emanciparsi oggi dai condizionamenti non più tanto di un marito padrone quanto di un’entità di genere apparentemente neutro: il mercato. L’ago diventa così mezzo per tramare un’altra storia, fare resistenza e non passiva, ricamo sul mondo, forma di meditazione trascendentale, via per scoprire un altro sé. Al workshop si deve andare muniti di ago, filo, forbici, pantaloni da orlare, lenzuola da rammendare, abiti da stringere, capi abbandonati negli armadi compresi maglioni infeltriti. Assicurano che con un po’ di impegno un maglione infeltrito diventa un paio di guanti, un vecchio paltò (non sia mai, che non sia il cappotto di Proust!) esplode e diventa una scamiciata.

C’è stato un tempo, neanche troppo remoto, in cui l’Italia era costellata di sarte e sartine, colonne portanti della società, servitrici della patria nel tinello o nel disimpegno, con il metro giallo sempre al collo, l’ago in bocca e il labiale alterato, un bouquet fitto di aghi fisso alla pettorina, a cucire e nel frattempo seguire magari la cottura dei cavoli e i compiti dei figli, o a tirar tardi chine sulla macchina da cucire, la Singer a pedale, prezioso bene prima, oggi cimelio di un tempo che fu.

Le sartine hanno sempre avuto un fascino e c’è chi ha cercato di concupirle. Nelle lettere a Letizia De Felici, titolare di una ditta di abiti che Gabriele d’Annunzio definisce “suor lamentevole”,  frasi d’amore e di passione sono mescolate a note sull’acquisto di stoffe. Angiolina Panizza, una sartina di Gardone che d’Annunzio chiama “Leila”, è destinataria di lettere con frasi d’amore venate di malinconia. Primavera è un racconto di Giovanni Verga del 1886 che narra la storia d’amore tra il protagonista, Paolo, e una giovane sarta, chiamata Principessa. Carolina Invernizio, la più prolifica autrice italiana (con all’attivo circa 150 titoli) nonché la più stroncata, (Gramsci la definì “onesta gallina della letteratura popolare”), ma anche la prima vera casalinga di Voghera, che tra l’altro vestiva nelle migliori sartorie per farsi confezionare cappelli piumati e abiti a strascico e diceva di sé che avrebbe potuto diventare anche una brava sarta, è stata proprio una sacra icona della letteratura “sartinesca”: drammi domestici a tinte forti dell’Italia umbertina. I misteri delle soffitte, La danzatrice di tango sono tra i titoli di un incessante taglia e cuci storie di sartine.

Ancora: Carmela e la sartina di Montesanto è un film muto del 1916, sceneggiatura e regia sono di una pioniera napoletana, ex modista, Elvira Notari, che amava i romanzi di Carolina Invernizio e di Matilde Serao; attrice protagonista una giovanissima Tina Pica; il film nacque da un adattamento di un romanzo d’appendice di uno scrittore napoletano, Davide Galdi: anche qui disavventure capitate a una povera sarta. Tanto fu il successo che il dramma popolare cinematografico venne “riromanzato”. Si intitola Lettere d’amore alle sartine d’Italia, un provocatorio scritto del 1924 di Guido Da Verona, autore discusso, iconoclasta, che in realtà con la scusa delle sartine ribatteva ai critici che lo accusavano di pastiche di vario genere. Anzi, gli rinfacciavano d’essere autore di “letteratura servile” e lui rispose dedicando appunto alle “sartine” – che certo erano distanti da queste beghe – la sua replica: “se dunque i miei riveriti confratelli mi hanno destinato come feudo il pubblico di Carolina Invernizio, e modestamente si son tenuti per sé tutto il fin fiore dell’intelligenza italica – io mi lamento solo d’una cosa, la quale non starebbe nei patti – e cioè ch’io li vedo venir tutti, uno dopo l’altro, a cercare di far breccia nel cuore delle sartine”. Alfa e omega della nazione, dunque, codeste “caterinette”, così chiamate perché la loro santa protettrice è santa Caterina.

“Le due ricamatrici non si movevano mai dal loro arsenale intorno al quale, a rispettosa e rispettiva distanza, si moveva tutto il resto come le stelle intorno al sole”: le più celebri e le più simpatiche ricamatrici della storia della letteratura italiana, son le Sorelle Materassi, Teresa e Caterina, “decrepite e bambine”, travolte dall’arrivo del nipote Remo. Il grande successo del romanzo scritto da Palazzeschi nel 1934 è testimoniato anche dalle riduzioni cinematografiche: il film Le sorelle Materassi del 1943, diretto da Ferdinando Maria Poggioli, e lo sceneggiato televisivo della Rai del 1972, con la regia di Mario Ferrero.

Una canzonetta del 1940, Pippo non lo sa, di Kramer e Panzeri le immortala in pose frivole: «Ma Pippo Pippo non lo sa che quando passa ride tutta la città e le sartine dalle vetrine gli fan mille mossettine». Nel 1949 Cesare Pavese vince il premio Strega con il romanzo La bella estate: protagonista è Gina una sedicenne che fa pratica in una sartoria, si innamora di un pittore, Guido, che non la ama. Gina è il simbolo della purezza e dell’innocenza che si scontra con un mondo corrotto.

La sartina diventa personaggio portante anche del cosiddetto neorealismo rosa, come nel film Le ragazze di piazza di Spagna, di Luciano Emmer, 1952, con Lucia Bosè e Marcello Matroianni. È la storia intrecciata di tre sartine: una, Lucia Bosè, sogna di fare l’indossatrice ma rinuncia per sposare un semplice operaio; un’altra tenta il suicidio per amore ma ritrova la felicità accanto a un tassista; la terza si innamora. A ogni epoca la propria composizione sartoriale: è tanto vero che il romanzo di Michela Murgia, Accabbadora che ha vinto il premio Campiello 2010, è la storia di una vecchia sarta di un paese sardo degli anni ’50 che cuce abiti e conforta le anime, e dello speciale rapporto con una bambina a cui insegna come cucire le asole, equipaggiarsi in vista delle battaglie che verranno, imparare l’umiltà di accogliere la vita e dare una morte pietosa.

Questo non è che un modesto campionario di stoffe di un commesso viaggiatore sballottato dal viaggio e dai tempi troppi brevi. A ciascuno la possibilità di aggiungere altre stoffe secondo predilezioni, gusti e cognizioni. Resta fermo che attaccar bottoni è un’arte. Cucire è sperimentare lo stato di presenza, essere nel tempo e oltre il tempo, comporre pensieri restando sospesi sul filo.

One thought on “Tornano le sartine a fare mille mossettine

  • Agosto 10, 2011 alle 8:44 am
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    L’Italia di sartine ed aspiranti tali esiste e la si può trovare sul forum di cucito “Let’s Sew !”. Per noi i cartamodelli sono ancora attualissimi.

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