L’ultimo viaggio di un battello ebbro: da madre flagello a sorella morte

Gravoso è dover indossare una nomea in vita, in morte, per l’eternità. Specie se l’appellativo non corrisponde al risvolto più vero dell’esistenza. Di maledetto infatti qui non c’è proprio nulla, eccetto il corso che prende la vita quando tutto si sfalda e il destino si inabissa fino alla dissoluzione.

L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur è tutt’altro che il ritratto di un “maledetto”. È  il resoconto realistico, finora inedito in Italia, della parte finale della vita di Rimbaud, poeta maudit per antonomasia secondo la vulgata comune, tratteggiato viceversa nella sua tribolazione umanissima della feroce, lei sì, maledetta malattia, colto tra speranze e paure. A scrivere questo resoconto fu la sorella minore Isabelle, indole opposta e contraria al fratello secondo l’accezione comune,  perché era bigotta e pia quanto basta da rendercela sulle prime detestabile. Ma anche qui il retroscena è che fu succube di una madre autoritaria e di un’educazione rigida da cui Arthur, precoce in tutto, fuggì per schiantarsi nel nulla di tanti rivoli. Certo Vitalie, la madre, lei per prima non ebbe vita facile e fu costretta a diventar tiranna: abbandonata dal marito, un capitano dell’esercito di nome Arthur come il nostro, e in questo forse vi è un principio di vera maledizione, ebbe a tirar su da sola cinque figli  aderendo in pieno al principio della rispettabilità sociale in una cittadina della provincia francese dell’ ‘800, Charleville, al confine col Belgio. E la tale sorella beghina in verità fu l’unica al capezzale di questo strano ribelle venuto a morire a casa, dopo un’esistenza breve, intensa, girovaga, irrequieta, persa. Il libricino di inaspettate memorie fa parte della felice collana Ocra Gialla della casa editrice Via del Vento di Pistoia che ha il merito di cercare e saper trovare con cognizione di causa e amorevole cura testi inediti e rari del Novecento: tasselli fondamentali per infrangere stereotipi che condizionano ancora il ricordo di possenti personalità letterarie e permettono di sganciarle dalla fissità della definizione unica.

Rimbaud era il secondo di cinque figli. Fu un enfant prodige, e questo è noto. Poeta di sensazioni e visioni, il  veggente capace di spingersi al di là di ogni canone di poesia fino a quel momento praticata, fuggì prima dalle sue radici, dalla casa, dalla madre “flagello”, dalla provincia; l’incontro con Verlaine e il loro rapporto non fu che un passaggio errabondo, quella che doveva essere una “illuminazione” divenne una “stagione all’inferno”  e la sua poesia non bastò ad acquietarlo né funzionò da amuleto per raddrizzare la sorte. Fuggì dunque Arthur anche dalla scrittura, ultima sponda, e il suo destino fu di dover espiare una smisurata sofferenza interiore declinata in forma di insofferenza perpetua, l’irrequietezza ante litteram attraverso il nomadismo, l’incessante spostamento, il viaggio, la fatica, lo sfinimento fisico fino alla malattia. Dall’abbandono della poesia inventò per sé tanti ruoli: insegnante a Londra, scaricatore al porto di Marsiglia, mercenario nelle isole olandesi e disertore a Giava, in viaggio al seguito di un circo, capomastro a Cipro, commerciante ad Harar, in Abissinia. Pare che fu uno dei primi occidentali a penetrare in questa città santa dell’Islam dove commerciò un po’ di tutto: avorio, caffè, pelli, oro, ma si diede persino a traffici spregiudicati come il commercio di armi. Finché fu costretto a tornare in Francia per un tumore osseo al ginocchio. Telegrafò alla madre perché lei o Isabelle lo raggiungessero subito. All’ospedale della Conception di Marsiglia gli venne amputata la gamba. Da quel momento Isabelle divenne la sola e unica custode del fratello, titolare del diritto di assisterlo e accompagnarlo alla morte.

Strano come il cerchio si chiuda a perfezione talvolta in certe storie familiari: la sua vita era trascorsa nella dimensione erratica da un punto d’inizio, condensato nella figura  della madre nastratrice, la mamma “flagello” (così la definì lui stesso)  alla fine, accudito da una sorella invasata dalla pietà e dalla devozione, sorella morte, secondo l’efficace definizione che ne dà Antonio Castronuovo nella bella postfazione. “Così quando Arthur – chiarisce Castronuovo – giunge nel luglio 1891 a Roche gravemente malato, dopo che a Marsiglia gli hanno amputato una gamba per tumore osseo del ginocchio, col moncherino invaso da propaggini cancerose e con guai sparsi per il corpo (il braccio destro paralizzato, forti dolori vaganti) è lei a rivendicare il diritto di assistere il fratello invalido, è lei a d accudirlo con una dedizione quasi angosciante. Ineluttabile allora che diventi anche depositaria dei segreti e dei tormenti del fratello: la scrittura e l’omosessualità, l’ingegno e l’ateismo”.

Zitella, trent’anni, fece dell’assistenza al fratello nei mesi della malattia e dell’agonia una missione di vita: “In quattro mesi – scrive Isabelle – mi ha insegnato più che altri in trent’anni. Devo a lui se oggi so che cosa sono il mondo  e la vita, e la felicità e il dolore. Distinguo che cos’è vivere, soffrire, morire”. A tal punto andò oltre questa simbiosi sororale che alla morte di Arthur, Isabella auspicò ciò che doveva realmente accadere anni dopo, come un’oscura profezia che si auto avvera: “E se Dio lo avesse voluto – morendo poco dopo della stessa sua morte, per andare a riposare laggiù, accanto a lui, e confortare così la sua anima inquieta, timorosa che io su questa terra, lo dimentichi”. Succederà infatti che la coincidenza o l’immedesimazione, si abbatterà su di lei: verrà aggredita anni dopo dallo stesso male di cui fu vittima il fratello (e singolarmente anche la sorella Vitalie, stesso nome della madre, morta giovanissima).

A tal punto l’identificazione fu totale che in quell’estate del 1891 si “appropriò” letteralmente del fratello per assisterlo a Roche, dove si era trasferita la famiglia, partire con lui in treno di nuovo alla volta dell’ospedale di Marsiglia dove ancora fu ricoverato, stargli accanto fino alla morte, sopraggiunta il 10 novembre 1891 quando Arthur aveva soli 37 anni, e infine accompagnare le spoglie nell’ultimo viaggio a Charleville. Quando parla di Arthur nei suoi scritti, parla usando il noi: “Non abbiamo gustato nessuno dei piaceri assaporati dai giovani. Nessuna vita è stata così austera come la nostra. Le carmelitane e i trappisti hanno più piaceri di quanti ce ne siamo concessi noi. E non per ruvidezza né per avarizia che noi conducevamo questo genere d’esistenza. La ragione è che eravamo assorbiti dall’idea di uno scopo santo e nobile; e concentravamo tutti i nostri sforzi verso quel fine. Siamo stati onesti, caritatevoli e generosi”. La simbiosi a tal punto si spinse da farle scrivere: “Pur senza averle mai lette, conoscevo le sue opere. Io le avevo concepite. Ma io, misera, non avrei mai potute esprimerle con le sue magiche parole. Ammiravo e capivo: tutto qui”. Eppure nel cerchio magico Isabelle entrò, e fece suo quel “vizio di famiglia tanto avversato dalla madre”: scrivere. Non solo dunque la sua vita divenne il prolungamento della vita del fratello con gli stessi esiti, ma anche un transito verso la scrittura quando  scrivere, per lei che con la madre gestiva e dirigeva il lavoro dei campi,  divenne un’urgenza non solo per placare ombre e sofferenze familiari, ma anche propri fantasmi interiori. Di più: Isabelle sposò il poeta Pierre Dufour (certo di tutt’altro calibro rispetto ad Arthur) e insieme divennero “devoti – con la libertà di correggere e tagliare i suoi testi – alla memoria di Arthur” (Castronuovo). Scrisse vari ricordi del fratello e anche un romanzo. Getta un’ombra su di lei il fatto che volle forzare l’immagine del fratello in una lettera alla madre in cui raccontò di una presunta conversione in punto di morte. Ma la dedizione fu estrema come il tracollo finale da eroe tragico. Una sorte simile tocca ai passeggeri di uno stesso “battello ebbro”: “Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti. Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro: L’acre amore mi gonfia di stordenti torpori. Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!”

Titolo: L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur
Autore: Isabelle Rimbaud
Editore: Via del Vento
Dati: 2009, 35 pp., 4.00 €