Un altro modo di fare le cose: il mio.

Maurizio Cattelan
Not Afraid of Love, Maurizio Cattelan.

In una scena del film Casinò di Martin Scorsese, Sam Rothstein (Robert De Niro) dice: “Ci sono tre modi di fare le cose: il modo giusto, il modo sbagliato e il modo in cui lo faccio io”.

Questa frase abbastanza nota ha preso a ronzarmi in testa da qualche settimana, precisamente da quando, in fase di ripasso prima della riapertura delle scuole, chiedo a mia figlia ˗ che ha otto anni ˗ se ricorda cosa sia un testo regolativo. Lei mi dà una risposta pressoché soddisfacente, nozione seguita da un elenco di esempi, poi per i dettagli si sofferma su quello classico dei ricettari da cucina. Cioè, argomenta, c’è un modo pratico e lineare di creare un piatto, basta tenere conto della lista degli ingredienti, delle istruzioni sul procedimento, dei consigli, dei tempi di cottura, adeguandosi anche a un grado di difficoltà espresso in pallini. Per esempio, spiega, tre pallini indicano una difficoltà massima e man mano che i pallini diminuiscono diminuisce pure la difficoltà. Mi ritengo soddisfatta, ha risposto correttamente, le dico che è stata brava, le do un bacio sulla guancia, eppure noto in lei un’espressione cupa, come di insofferenza. Al che le chiedo se c’è qualcosa che non va. Così, dopo qualche incoraggiamento ad aprirsi, scopro che non è affatto d’accordo sulla valenza dei testi regolativi, e aggiunge che nella gran parte dei casi non può esserci un modo soltanto di fare le cose. Non può esserci un modo soltanto soprattutto quando si crea. Quando si crea, sentenzia, c’è solamente il modo in cui lo faccio io.

L’arte, quindi, a otto anni, non è metafisica, non è astratta né indefinibile. L’arte è semplicemente una realtà soggettiva, un modo proprio di fare, il dare alla luce un qualcosa dotato di una propria identità che lo distingue da tutti gli altri e lo innalza a un livello altro, anche quando si tratta semplicemente di realizzare un piatto.

Il concetto mi pare chiarissimo.

Maurizio Cattelan
Struzzo con la testa nel pavimento, Maurizio Cattelan.

Ora, se per traslato volessi pensare a qualche romanzo sperimentale, a qualche libro a modo mio ˗ come a questo punto mi sembra giusto definirlo ˗ letto o riletto negli ultimi tempi, mi vengono in mente un bel po’ di titoli. Il Faulkner di Mentre morivo o de L’urlo e il furore, la Woolf de Le onde, lo Sterne di Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo giusto per fare qualche esempio retrodatato. Ma sul mio comodino la catasta pericolante di libri contemporanei a modo mio non scherza: Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, i romanzi di Aimee Bender, l’Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Tutti titoli che hanno un alto valore letterario, nonché portatori di un forte personalismo.

Mi rendo conto che classificare i libri in questo modo è rischioso, mi si potrebbe tacciare di faciloneria, si potrebbe scivolare verso l’eterna querelle tra romanzi di “consumo” e romanzi “letteratura”. Lo so. Ed è infatti per non correre il rischio che mi prendo un po’ di tempo per spiegare cosa trovo in un libro a modo mio, e lo faccio partendo da un esempio concreto, un libro fresco di stampa ˗ uscito soltanto qualche settimana fa per Minimum fax:  Sofia si veste sempre di nero.

L’autore è Paolo Cognetti, classe ’78, milanese. Sue sono due raccolte di racconti molto fortunate, un reportage di viaggio, più qualche documentario.  Da buon eclettico conduce laboratori di scrittura creativa di cui mi hanno detto un gran bene e tiene un blog interessante, nel quale, chi ha voglia, potrà andarsi a leggere un insolito ˗ insolito per un libro ˗ backstage a Sofia si veste sempre di nero.

I temi trattati da Cognetti sono molteplici, si scandaglia la parte meno esaltante sia del privato che del sociale. Il tentato suicidio, la depressione latente e sempre in agguato, il tradimento, la solitudine, la difficoltà dei rapporti, soprattutto quelli di sangue, l’incapacità d’amare nel modo giusto ma anche di dimostrarsi affetto. Tutto narrato con una levità di stile tale da far accettare di buon grado ˗ seppur in uno stato costante di commozione ˗ le follie, le inettitudini, le passività dei vari personaggi, Sofia su tutti.

I dialoghi sono necessari, mai trabordanti. E se si conta che sullo sfondo ci sono trent’anni di storia italiana, mi pare di aver dato almeno tre buoni motivi per leggerlo.

Ma non perdiamo di vista lo scopo: perché questo è un libro a modo mio?

Intanto la struttura. Sofia si veste sempre di nero non è un romanzo (almeno non nel senso tradizionale che si dà al termine), ma non è neppure una raccolta di racconti (anche se delle raccolte di racconti ha il pregio di non dover rispettare un ordine di lettura). Io lo definirei un ibrido in cui la Sofia del titolo ˗ protagonista che si contende la scena con altri personaggi altrettanto forti e strumentali ˗ funge da minimo comun denominatore. L’autore ha parlato di struttura a mosaico, io direi che ci troviamo di fronte a un puzzle dove ogni pezzo è un’immagine a sé ma che ricomposto darà vita a un’altra immagine, più grande e più complessa.

Maurizio Cattelan
Bidibibodibiboo, Maurizio Cattelan.

Il cambio di punto di vista e di persona da un racconto all’altro, senza che per questo il lettore si trovi perso o disorientato. La sensazione è piuttosto quella di dover ricominciare daccapo, ma tutte le volte da un presupposto diverso e con nuovi fini da perseguire.

La gestione dei tempi narrativi, dove non sono tanto le analessi e le prolessi a scandire gli intervalli, quanto proprio la libertà di ricominciare a raccontare la stessa storia da un altro momento storico, perché non è possibile fare altrimenti.

Infine, la capacità di tenere celato il senso del racconto, che arriva ma soltanto alla fine. In questo senso Sofia si veste sempre di nero ricorda molto la Alice Munro dei racconti migliori, dove si chiede tempo al lettore, tempo per disporre sul tavolo tutte le tessere, una per volta, affinché lo svelamento finale arrivi soltanto al momento giusto, quando e soltanto se il lettore avrà avuto pazienza e si sarà mostrato disposto a partecipare al processo creativo con una ricapitolazione finale.

Sono stata abbastanza convincente? Sì. No. Forse. Io dico che da un certo punto in poi è più giusto che ciascuno scovi i propri motivi autonomamente, perché se c’è un modo mio di scrivere ci deve essere necessariamente un modo mio di leggere.

Io, per parte mia, metterò Sofia si veste sempre di nero in cima alla pila pericolante sul comodino e aspetterò il momento di riprenderlo in mano. Ché, si sa, ogni libro importante merita almeno una seconda lettura.

Titolo: Sofia si veste sempre di nero
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Minimum Fax
Dati: 2012, 208 pp., 14,00 €

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