Un ecologista ante litteram

Se il Romanticismo è la vostra corrente di pensiero preferita, conoscerete benissimo Henry David Thoreau, filosofo e scrittore statunitense, famoso per le sue riflessioni sul rapporto tra uomo e natura. Non solo speculazione però: Thoreau, infatti, consacrò la sua vita alla scoperta dei misteri che si nascondono dietro ad alberi, laghi e montagne, vivendoli da vicino. E nessun ambiente, come il bosco, solleticava maggiormente la sua anima selvaggia. Non è quindi un caso se nel 1864 scrisse I boschi del Maine, un libricino nel quale descrive il suo viaggio, compiuto solo qualche anno prima, in quella che probabilmente era la regione più primitiva degli Stati Uniti. Dove alberi e piante crescevano in un disordine ben lontano da quello apparente che domina i nostri boschi. Perché pochi erano gli uomini che arrivavano fin lì: i personaggi che costellano il racconto autobiografico sono infatti i boscaioli e i taglialegna, spinti fin là non solo dalle necessità economiche ma anche dallo spirito pionieristico dell’epoca, che continua ad affascinare terribilmente noi europei.

Thoreau viaggiava in canoa, perché l’ambiente da lui descritto era circondato da laghi, fiumi e torrenti e la boscaglia era spesso troppo fitta per poterla attraversare a piedi. Ma i personaggi che dominano il racconto sono gli indiani, che Thoreau osserva affascinato. Sono loro che lo accompagnano di radura in radura; e sono loro ad attirare il suo sguardo e il suo interesse, non solo per la diversità di costumi, per la scaltrezza e la velocità con la quale si muovono in questi territori selvaggi; ma anche perché compagni più raffinati dei rozzi taglialegna, non in grado di conversare se non di argomenti poco nobili. Thoreau segue la spedizione con intento scientifico, oltre che filosofico, e si premura di annotare sul suo taccuino le specie animali e vegetali che incontra sul suo cammino. Ed è con questo spirito che partecipa alla caccia all’alce, che però non lascia indifferente l’animo sensibile del poeta.

È dall’osservazione dell’animale morto che si dipana infatti una serie di riflessioni circa l’intervento distruttivo dell’uomo sulla natura. Oggetto della critica non sono però gli indiani, che si servono della loro abilità per una questione di sopravvivenza, quanto gli uomini “civili” che, anche solo con la loro presenza, turbano l’equilibrio della fauna e della flora silvestri.

Del resto, ci spiega Thoreau, basta anche solo spostare foglie e arbusti per far penetrare più luce nel bosco e, di conseguenza, iniziare un processo di civilizzazione dell’ambiente. Civilizzazione: una parola che non deve fuorviare: scorrendo le pagine di questo prezioso manualetto, si intuisce ben presto con che spirito lo scrittore lo usi. Civili sono i nostri giardini curati; selvaggi i boschi del Maine, raggiunti da pochi.

A noi la scelta di ciò che preferiamo. Un libro prezioso, dicevamo. Sì, perché si tratta di una delle ultime testimonianze della narrativa sulla civiltà indiana, in procinto di tramontare. Nel leggere I boschi del Maine ci rendiamo conto di avere tra le mani un mondo purtroppo scomparso. In alcuni punti, la descrizione di questo popolo sembra indulgere a un velato razzismo. Ma è solo frutto della forza di un impatto con una civiltà completamente diversa, che noi a malapena possiamo capire, per quanto mischiati da anni ad atre etnie. Ma allora tutto era nuovo ed è impensabile che un punto di vista, per quanto antropologico, rimanga asettico e indifferente. La sensazione è più quella dello sguardo puro di un bambino. Non dimentichiamoci, infatti, che Thoreau era una disobbediente civile, amante dell’uomo e della natura, tanto da aver ispirato personaggi come Ghandi e Martin Luther King. “Perché non possiamo avere le nostre riserve naturali dove potranno continuare a vivere l’orso e la pantera, invece di finire “civilizzati fuori dalla faccia della terra”?»

Titolo: I boschi del Maine. Chesuncook
Autore: Henry D. Thoreau
Editore: La vita felice
Dati: 2011, 128 pp, 11,50 €

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