L’inafferrabile leggerezza dell’aristocrazia. Il ritorno di sir Francis Varney, vampiro

Come direbbe Dumas, la trama si complica. O, per meglio dire, si struttura. La seconda puntata delle avventure di Varney il (sedicente) vampiro, appena edita da Gargoyle, si presenta infatti notevolmente più solida rispetto al precedente volume.

Trattandosi di un’operazione narrativa seriale e standardizzata (i due poligrafi genitori di Varney, lo abbiamo già detto, scrivevano prima di tutto per riempire la pagina, e solo in seconda istanza per raccontare una storia), sarebbe inesatto parlare di una maturazione degli autori nella gestione della materia. Eppure gli ingranaggi della narrazione funzionano qui senz’altro meglio. Nel primo volume, in sostanza, la maggior parte delle oltre 500 pagine di testo scorrevano (si fa per dire) in interminabili discussioni sulla reale natura di Varney (è davvero un vampiro o finge soltanto?) e sulle bizzarre modalità di reazione alle sue intrusioni nella vita familiare dei Bannerworth (sfidarlo a duello o denunciarlo alla polizia?). Altro non succedeva. Stavolta, grazie a una sana riduzione dei “racconti nel racconto” e a un miglior dosaggio degli stacchetti comici tra l’ammiraglio Bell e il suo secondo, la storia vera e propria si prende più ampio respiro, con alcune opportune complicazioni nell’evoluzione del racconto, un certo numero di sviluppi imprevisti e una maggiore abilità nel gioco delle parti.

Certo, alcune cose che non ci erano piaciute prima non possono francamente piacerci nemmeno adesso. Henry Bannerworth, l’improvvisato “capo” della famiglia vittima del vampiro, è senza ombra di dubbio uno dei personaggi più stupidi e insulsi mai partoriti dalla narrativa mondiale; così come la bella e verginale Flora, che pure è costretta a infilarsi il busto decisamente strettino dei canoni morali della femme gotica, pure potrebbe prendersi qualche libertà in più di quella che la confina al rango di modello irraggiungibile per aspiranti alla santificazione. Eppure, in questa seconda parte della fluviale storia di sir Francis Varney, gli elementi di interesse non mancano.

In primo luogo, il ruolo finalmente preponderante assunto dalla psicologia, dalle ambiguità e dalle contraddizioni del vampiro nella storia che dopotutto da lui, e non dai Bannerworth o da altri più o meno simpatici comprimari, prende il nome. Varney veste con molto maggiore naturalezza l’abito proteiforme che, giocando sul filo di lana dell’incertezza, lo mostra ora come creatura soprannaturale, ora come criminale di bassa lega, ora come vittima di una maledizione che proprio in lui sembra sortire gli effetti psicologicamente più devastanti, costringendolo a seminare cadaveri lungo la sua scia per salvare una vita che non gli piace, ma che malgrado tutto non riesce a non protrarre molto più del dovuto. Senza contare i travestimenti talvolta istrionici che adotta per soddisfare i suoi scopi, e che finiscono, nel corso del racconto, per renderlo inafferabile soprattutto a se stesso.

Ma l’elemento forse più importante di questo nuovo episodio, ciò che rende Varney il vampiro un unicum nella letteratura vampiresca (almeno a mia scienza), è la prospettiva sociale adottata dagli autori. Nel primo come nel secondo episodio, il vero antagonista di Varney è non tanto la scipita famiglia Bannerworth, quanto quel mostro dalle molte teste e dalla scarsa ragionevolezza incarnato dal “popolino”, o “marmaglia”, o “plebaglia” che dir si voglia: insomma, il ceto lavoratore della cittadina mercantile in cui si svolge l’intera vicenda.

Non è un elemento di scarsa rilevanza: come sottolinea Fabio Giovannini nella sua davvero bella Introduzione (che potete leggere per intero qui sotto), il vampiro solitamente rappresenta, nella letteratura, il passato: la simbologia di un aristocratico che succhia il sangue alla media e alta borghesia è talmente esplicita che non serve nemmeno spiegarla. Il punto di vista dei racconti vampireschi è in genere quello delle vittime, appartenenti a una classe sociale diversa da quella del loro nemico (Lord Ruthven, Conte Dracula…), non foss’altro perché devono lavorare per vivere. Qui le cose sono del tutto diverse: Varney è l’unico racconto di vampiri a me noto in cui entrambe le parti, appartenendo alla medesima classe sociale, condividono la stessa esigenza: trovare un modo per vivere di rendita senza dover fare assolutamente nulla (l’unica preoccupazione che per tutto il romanzo angustia i decaduti Bannerworth).

Sia il “carnefice” che le vittime hanno paura non tanto gli uni degli altri, ma tutti del popolo, che disprezzano, odiano e ostacolano in tutti i modi (se devono salvare qualcuno, i Bannerworth salvano Varney portandoselo in casa e sottraendolo alla furia omicida della “marmaglia”). Entrambi si sottraggono all’obbrobrio della quotidianità con la medesima soluzione (un matrimonio facoltoso). Per le ragioni del popolo, gli autori non dimostrano la minima comprensione. La prospettiva è sempre essenzialmente aristocratica, anche se di un’aristocrazia che ormai non ha più nulla da vendere se non il proprio nome e la propria totale inettitudine. Tutto il resto è noia (nobiliare). E questo è forse, per inciso, un altro dei tratti (oltre ai canini, inventati proprio da lui) che il prolifico e (finora) misconosciuto Varney lascia in eredità ai vampiri moderni, spesso costituiti in associazioni di stampo mafioso collusi con il potere dominante.

Insomma, la scommessa generalmente difficile di far meglio il numero due del numero uno si può dare per vinta. E, a questo punto, possiamo persino dire di essere curiosi di vedere come andrà a finire.

Leggi l’introduzione

Titolo: Varney il vampiro 2. L’inafferabile
Autore: Thomas Preskett Prest – James Malcolm Rymer
Editore: Gargoyle
Dati: 2010, 513 pp., € 16,00

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