Vikings si batte con onore, il posto nel Valhalla delle serie tv è assicurato

vikings_posterVikings, History Channel.
Prima stagione.
Domenica, dal 3 marzo al 28 aprile.
Sito ufficiale

A-AH-AAAAAH-AAH! A-AH-AAAAAH-AAH! / We come from the land of the ice and snow / from the midnight sun where the hot springs bloooow! / The hammer of the gods / will drive our ships to new lands / to fight the horde, singing and crying / Valhalla, I am coming!

Per la barba di Odino, ma vi immaginate che glorioso intro sarebbe stato questo?! Avrebbe rivaleggiato con i titoli di testa di Game Of Thrones per la palma di miglior opening credits di una serie televisiva nella storia delle serie televisive, e avrebbe corroborato la tesi, caldamente sostenuta dal sottoscritto, secondo cui Vikings è lo show più metal della televisione contemporanea. Ebbene si, cari fanatici della classica accoppiata tra epica e heavy metal: Vikings potrebbe dare del filo da torcere, su questo terreno, persino alla star indiscussa del genere, quel Game of Thrones di cui su AtlantideZine si è parlato appena una settimana fa. Che poi questo sia un pregio piuttosto che un difetto, beh, dipende tutto dalle sensibilità personali. Dopo questo iniziale slancio di entusiasmo dettato da mai sopite passioni giovanili, devo ammettere che la mia tesi, per quanto accattivante, ha una falla fondamentale: avrebbe irrimediabilmente associato Vikings, nuova serie tv prodotta da History, allo show prepartita degli omonimi Minnesota Vikings, ovvero quella carnevalata che prevede l’uscita dei giocatori da un drakkar gonfiabile accompagnati proprio dalle immortali note degli Zeppelin, e capeggiati da Ragnar a cavallo di una rombante motocicletta (capito? Ragnar Loðbrok, condottiero vichingo, in motocicletta. E poi la gente se la prende con i Manowar…).

badass_vikings_ftwEvidentemente insensibile al fascino di questo connubio che a me appariva tanto scontato da rasentare l’ovvietà, la produzione si è orientata in tutt’altra direzione, scartando la dimensione epica e battagliera e optando piuttosto per le note uggiose di Fever Ray. Superata l’iniziale diffidenza, devo riconoscere che sin dalla prima visione questa scelta si è dimostrata tutt’altro che sconsiderata: al contrario, il dark ambient della cantante svedese contribuisce in modo considerevole (e potrei avventurarmi addirittura nel dire “decisivo”) alla creazione del giusto mood entro cui collocare la visione di Vikings. In un minuto scarso di raro impatto visivo, questi titoli di testa riescono ad evocare un’atmosfera plumbea, livida, a tratti misteriosa e soprannaturale, carica di simbolismi e allo stesso tempo rivelatrice, attraverso rapidi squarci di immagini crude e brutali, di quelli che saranno alcuni tra i temi forti della serie. Certo, a voler fare gli ipercritici si potrebbe dire che ricorra ad un facile immaginario genericamente etichettato come “vichingo”, così come ce l’ha tramandato la tradizione romantica (i drakkar che solcano un impetuoso mare in tempesta, sotto un cielo scuro e gonfio di pioggia, illuminato dai fulmini scagliati da un Thor svegliatosi di pessimo umore), ma anche se questo fosse vero, ed in effetti lo è, dato che la sigla effettivamente ricorre ad associazioni mentali immediate e non troppo originali, non si può negare che l’alone impalpabile di misticismo che la pervade sia efficace nel trasmettere il giusto vibe allo spettatore che si appresta ad assistere ad uno show epico incentrato, appunto, sui leggendari guerrieri vichinghi. D’altra parte, quante altre epoche storiche possono rivaleggiare in epicità con l’età vichinga? Chi altro offre un profilo altrettanto affascinante, a tratti misterioso, e il corredo di una mitologia che proprio in epicità dà dei punti a tutte le altre? (Per dire: date un’occhiata a che razza di fiabe ne possono venir fuori). Le gesta belliche e la cultura dei popoli scandinavi, dominatori del Nord Europa nel corso di quasi tutto l’Alto Medioevo, sembrano un soggetto ideale per una serie ad ambientazione storica.

“Si, vabbè, so’ due paragrafi che ce stai a parla’ della sigla. Ci nascondi qualcosa?”

Ragnar lookin' good

Obiezione da diffidenti: se il punto di forza della serie sono i titoli di testa piuttosto che le otto ore abbondanti che costituiscono questa prima stagione appena conclusa, uhm, gatta ci cova. Mi permetto di contro-obiettare che la sigla, sebbene in termini di durata possa apparire irrilevante nell’economia globale di un prodotto a lunga (o media, come in questo caso) serialità, svolge invece un ruolo tutt’altro che marginale nello stabilire la cornice entro cui collocare la visione della serie stessa. E comunque, no, la sigla non è l’unico aspetto positivo di Vikings.

Per la produzione della sua prima serie originale, History, un tempo nota urbi et orbi con l’altrettanto fantasioso nome di History Channel, ha ovviamente scelto di restare nella propria nicchia di competenza, ovvero la divulgazione scientifica (?) in ambito storico. Stabilire quale sia l’effettivo valore scientifico (?) dei documentari prodotti da History non è argomento da trattare in questa recensione: meritata o no, il canale può contare presso una certa parte del pubblico televisivo (certamente quello di riferimento, quello nordamericano) su una reputazione di autorevole divulgatore culturale, ammantato, per così dire, di una certa aura di credibilità accademica, e questo è sufficiente a spiegare l’appeal di Vikings, e anche ad avere un’idea del tipo di prodotto che ci si troverà davanti. Insomma, la smetto con le perifrasi e lo dico chiaramente: io partivo con un pregiudizio grosso così, e quando ho letto “prima fiction originale di History” mi sono ingenuamente chiesto come mai tutto ciò che History Channel ha prodotto fino ad ora non fosse stato rubricato come “fiction”. Poi ho anche pensato che da noi una sera a settimana è occupata da Voyager, quindi ho sospirato, e ho concluso che magari c’è poco da fare gli snob.

Ma sto divagando. Il dato davvero importante è che l’ennesimo esordio nel mondo della serialità televisiva di questo ricco 2013 (che ha visto, accanto a History, anche Sundance Channel, Netflix e Amazon intraprendere la carriera di produttori di contenuti originali) ha portato in dote un budget non trascurabile di ben 40 milioni di dollari. Ancora pochini, rispetto a quanto possono mettere sul piatto colossi come HBO e Netflix, ma pur sempre una discreta manciata di soldini per una serie di nove episodi (e un’enormità se comparate agli investimenti nei prodotti di punta dello sconfortante panorama italico fatto di preti e carabinieri, considerazione che mi porta al secondo sospiro nel giro di poche righe). Questo discreto gruzzolo è stato messo nelle mani Michael Hirst, evidentemente ritenute sapienti in virtù delle sue precedenti prove da autore di history drama, ovvero i film Elizabeth e Elizabeth 2: la vendetta, e soprattutto serie in costume di successo come The Tudors (oltra a vantare — ammesso che ci sia di che vantarsene — anche il ruolo di produttore esecutivo di The Borgias per Showtime e Camelot per Starz).

“Si, vabbé, ma dicce un po’, alla fine com’è ‘sto Vikings?”

Wait a minute, is that Odin?!Infatti, com’è Vikings? Nonostante tutto quello che ho scritto finora possa suscitare qualche dubbio e non lasci presagire nulla di buono, la prima stagione si è battuta con onore nel sempre più affollato campo di battaglia delle serie tv, e si è guadagnata a colpi d’ascia e di rating positivi il rinnovo per una seconda stagione. I risultati sono stati talmente buoni che la prossima stagione, in onda nel 2014, si articolerà in dieci episodi, uno in più rispetto a quella appena conclusa. Presumibilmente, quindi, ci saranno più soldini a disposizione del signor Hirst, il quale ha fatto, tutto sommato, un buon uso di quelli che gli erano stati affidati.

La mia opinione è che Vikings sia un prodotto non di livello eccelso, ma sorprendentemente godibile, e di sicuro capace di trascendere le mie aspettative. Che, in tutta onestà, dopo la visione dei trailer e la lettura delle varie presentazioni non erano certo invalicabili. Ed invece, pur non sviluppando una trama orizzontale particolarmente complessa, pur mettendo in scena personaggi abbastanza semplici e lineari, la cui evoluzione psicologica e le cui dinamiche relazionali sono facilmente prevedibili, pur non potendo contare su una scrittura sofisticata, Vikings si lascia seguire con piacere, senza sforzo alcuno (al contrario di mostri sacri come l’altalenante Game of Thrones, o il sempre più letargico Mad Men), tenendo vivo l’interesse ed offrendo globalmente uno spettacolo abbastanza coinvolgente, ed in grado, in alcuni momenti — molto rari, in verità, ma significativi — di raggiungere picchi davvero notevoli che ne fanno una delle migliori serie in assoluto di questa prima metà del 2013, e non solo un’ottima debuttante. Tra questi, vi è senza dubbio la sequenza di apertura dell’episodio pilota, in cui Vikings gioca in modo furbo tutte le sue carte migliori: una scena di battaglia (beh, lo spettacolo è spettacolo!) ben coreografata che, grazie ad un’ottima fotografia e ad un uso discreto e sapiente della computer grafica, riesce ad essere avvincente come solo una scena d’azione ben girata sa essere, ed allo stesso tempo introduce la dimensione mitologica e culturale dell’universo norreno. Esempio da manuale di “parte rappresentativa del tutto”, questa prima sequenza contiene in sé tutti gli elementi che costituiranno la cifra stilistica dell’intera serie: la dimensione epica ed eroica, con le gesta sul campo di battaglia dei temuti guerrieri vichinghi, e quella culturale e spirituale, legata all’onnipresente senso del divino proprio delle popolazioni nordiche. E siccome stiamo parlando di televisione, il fatto che il tutto sia condito da una cinematografia di buon livello (ottima nel caso di questa prima scena, ma di buon livello in quasi tutto il resto della serie), con il contorno di paesaggi fiabeschi e suggestivi la cui grandiosità lascia spesso a bocca aperta, non è da sottovalutare.

Floki built a hell of a drakkar

La miscela di queste due componenti in proporzioni accettabili è senza dubbio il lato migliore di Vikings. In modo intelligente, i creatori della serie hanno sfruttato la reputazione di History di cui si diceva nel noioso pistolotto introduttivo di cui sopra, in grado di garantire una patina di veridicità storica su quanto viene messo in scena, dichiarando esplicitamente di voler puntare proprio sull’esplorazione della cultura dei popoli scandinavi attraverso la narrazione di una storia di finzione. Passati alla storia per lo più come popolo di grandi navigatori, i vichinghi hanno dovuto rinunciare, a causa del noto copyright italico, alla qualifica di poeti e santi, dovendosi quindi accontentare degli epiteti meno nobili e rinomati di “guerrieri” e “razziatori”, in uno scambio che non è poi così tanto male se l’intento è quello di tramandare un’immagine epica ed eroica di sé (poeti e santi invece? utili a malapena per una fiction di mamma RAI), ma che si rivela penalizzante nel momento in cui vengono stilate immaginarie quanto inutili classifiche che mirano a discriminare tra le civiltà raffinate e quelle meno evolute. Pur senza scardinare questa logica etnocentrica, il tentativo di Vikings, encomiabile nelle intenzioni, è quello di rendere giustizia alla storia e alla cultura vichinga, cercando di diffonderne gli aspetti meno noti. Operazione non facile, vista la carenza di fonti storiche esaustive ed attendibili, ma è proprio in questo spazio che si muove Vikings, cercando, per mezzo del racconto di fantasia, di ricostruire quei tasselli mancanti. Se il metodo ha ben poco di scientifico, di certo funziona dal punto di vista dell’intrattenimento, e la serie riesce sicuramente a restituire un’immagine delle tribù nord-europee non limitata alla nozione canonica di popolazione bellicosa dedita alla pirateria, ma di società complessa, con le sue istituzioni sociali (la famiglia), politiche (la tribù), economiche (il villaggio di contadini), religiose (le cerimonie al tempio di Uppsala), con un complesso sistema giuridico, ed una religiosità pervasiva in tutti gli ambiti del vivere sociale. Se non avessi paura ad usare un parolone con troppo sillabe, direi che Vikings è quasi un esperimento paleo-etno-antropologico, che sotto molti punti di vista definirei riuscito.

Poi le pecche ci sono, e talvolta sono macroscopiche. Se nei momenti migliori la sceneggiatura riesce a parlare della cultura vichinga con naturalezza, facendo in modo che l’universo simbolico non sia dichiarato, ma diventi piuttosto una “proprietà emergente” della narrazione (per esempio, il funzionamento del sistema giuridico, esemplificato attraverso quello che è un vero e proprio procedural drama in cui, al posto dei consueti avvocati in giacca e cravatta ci sono dei vigorosi e barbuti guerrieri), in altri si riduce a degli improbabili spiegoni, in cui tutto ci viene descritto per filo e per segno (come nella spiegazione dei riti legati al raggiungimento della maggiore età dei giovani vichinghi, o la surreale discussione che descrive in modo minuzioso l’organizzazione dell’intero pantheon vichingo).

Floki kicking some english ass

Nella costruzione dei personaggi si ripresentano i già citati limiti di scrittura, e sulla costruzione degli stessi mi permetto di nutrire qualche perplessità. Alcuni tra i personaggio principali sono fin troppo stereotipati, vittime di una caratterizzazione semplicistica, per non dire caricaturali: il pazzerello Floki (Gustaf Skarsgård) per esempio, con il suo accenno di corpse painting da black metaller, o lo ieratico indovino (John Kavanagh) truccato da Marylin Manson, sono davvero poco verosimili. E tutto sommato anche la personalità del protagonista, vagamente ispirato alle vicende del leggendario eroe Ragnar Loðbrok, il condottiero responsabile dell’unificazione dei regni di Danimarca e Svezia, non brilla per originalità: il Ragnar Lothbrok (Travis Fimmel) protagonista di Vikings ricalca perfettamente (o ripete pedissequamente, a seconda di come lo si voglia vedere) il prototipo dell’eroe intrepido, ambizioso, visionario, assetato di conoscenza, genio individualista desideroso di progresso e per questo spesso in contrasto con il conservatorismo delle istituzioni e del sentire comune. Non è tanto un problema di credibilità storica di un personaggio tratteggiato in questi termini, che sì, suonano un po’ anacronistici, dato che Ragnar dimostra un’attitudine positivista in anticipo sui tempi di svariati secoli: alla fine, se il personaggio funziona, è più importante la coerenza interna alla storia ed una generale verosimiglianza, piuttosto che l’aderenza puntuale alla verità storica. Il problema è che Ragnar ricorda un po’ troppo Jax Teller di Sons of Anarchy, e passi tutto, ma se un condottiero vichingo si comporta come il leader di una gang di motociclisti californiani c’è qualcosa che non va. A meno che non ci si trovi ad una partita dei Vikings, nel qual caso tutto torna. La similitudine con il tormentato protagonista di Sons of Anarchy è accentuata dal fatto che la recitazione di Fimmel non è molto più raffinata di quella di Charlie Hunnam, e tra i due si potrebbe trovare persino una certa somiglianza fisica. Limitandoci alla recitazione, a voler essere brutalmente onesti si può affermare come essa consista in effetti di un’unica espressione, ed avendo gli sceneggiatori deciso che uno dei miti da sfatare in merito all’iconografia vichinga fosse quello degli elmi ornati di corna (ragion per cui i vichinghi dello show combattono prevalentemente senza copricapo), al buon Travis è stata materialmente preclusa la possibilità di esibirsi per lo meno nelle due varianti “con elmo” e “senza elmo”,  riuscendo quindi a fare peggio, per ciò che riguarda l’espressività, addirittura del caro vecchio Clint.

Ragnar Lothbrok: cool as ice

Però, bisogna dirlo, quella perennemente stampata sulla faccia di Ragnar è una gran bella espressione: sguardo sornione, un mezzo sorriso strafottente, occhi glaciali (poteva essere altrimenti?) e l’aria di chi, nonostante la giovane età, la sa sempre davvero lunghissima e può contare su un quantitativo di punti carisma virtualmente illimitato. Ragnar Lothbrok vanta discendenza diretta con Odino, e questo parrebbe dargli una mano significativa sia sotto il profilo del carisma che nel successo che riscuote tanto da guerriero quanto da condottiero.

Lo ripeto: la chiave di volta che consente a questa serie di stare in piedi è il bilanciamento, che da un lato permette di prendere le distanze dagli ordinari fantadocumentari che History regolarmente manda in onda, e dall’altro scongiura il rischio di eccedere sul lato dell’azione e della violenza fine a sé stessa, resistendo alla tentazione di ridurre il tutto ad una serie di sanguinosi combattimenti (che per carità, a volte è un approccio che funziona e che io apprezzo molto, si pensi a The Walking Dead prima stagione, ma che sul lungo periodo corre il rischio di diventare un meccanismo perverso in grado di intrappolare la narrazione e renderla asfittica, vedi alla voce The Walking Dead terza stagione). E la parte dedicata all’azione è, tutto sommato, di buona fattura, e mi sento di riconoscerle il pregio di essere, per la maggior parte, understated, ma con gusto. Esempio principale di questa tendenza a non alzare troppo i toni è la rappresentazione del saccheggio dell’abbazia di Lindisfarne (nessuno spoiler, si trova in tutti i libri di storia), in occasione del primo viaggio verso occidente a bordo del primo drakkar in grado di solcare il mare aperto. La razzia è rappresentata in modo quasi distaccato, cruento ma senza strafare, e ho l’impressione che la sobrietà (forse persino eccessiva, stando alle cronache dell’epoca) sia il giusto antidoto alla spettacolarizzazione, e contribuisca, invece, al rafforzamento della credibilità. Può anche essere che si tratti di un fortuito caso di un buon risultato ottenuto facendo di necessità virtù, dato che mettere in scena grandiose battaglie ha un costo non indifferente e le tasche del signor History, per quanto capienti, non sono illimitate (o quasi) quanto quelle dei produttori nobili che abitano sul premium cable, essi stessi costretti, talvolta, a glissare sulle scene di battaglia per carenza di pecunia. Tuttavia, benché a prima vista possa sembrare un controsenso, credo che questo taglio equilibrato, senza ambizioni da kolossal (o senza la possibilità materiale di esserlo), abbia addirittura giovato alla serie, scongiurando il rischio di esagerazioni à la Troy, tanto per capirci (ovvero flotte di navi da guerra che manco durante lo sbarco in Normandia, oppure eserciti sterminati da far invidia a quelli messi in piedi da Sauron). Poi, certo, qualche esagerazione c’è: i vichinghi dello show sono macchine da guerra inarrestabili, e mi pare di poter dire che nessuno di loro, nelle varie scene di combattimento (alcune coinvolgenti e ben coreografate, altre involontariamente un po’ comiche) abbia mai fatto meno di 19 al tiro per colpire, inanellando critici con facilità disarmante. Ma grazie ad una fotografia di ottimo livello, e ai clamorosi sfondi garantiti da madre natura (per gentile concessione della terra d’Irlanda, non della Scandinavia), le scene di combattimento sono in grado, senza strafare, di garantire il giusto apporto di adrenalina, spesso più dei molti insipidi combattimenti visti nella serie principe della stagione (indizio per i più distratti: Game of Thrones).

Careful, Ragnar is ready to chop your head off

“Si, vabbé, ma perchè continui a citare Game of Thrones?! Non c’hai già detto tutto la settimana scorsa?”

È vero: mi ero ripromesso di evitare eccessivi riferimenti al fantasy epico targato HBO, e ho finito per utilizzarlo in modo fin troppo ricorrente come unico termine di paragone. Direi che è ora di afferrare il vichingo per le corna e affrontare la questione. La rappresentazione di un’ambientazione medievaleggiante (nei costumi, nel trucco, ma anche in alcuni aspetti della fotografia e delle scelte registiche) e il taglio eroico dei trailer lasciava intravedere qualche strizzatina d’occhio alla serie che ha riportato in televisione il genere epico (ad un livello accettabile, non a quello infimo di Hercules, Xena, ed eroica compagnia battagliante): Game of Thrones ha il merito innegabile di aver stabilito i nuovi canoni di questo linguaggio, e giocoforza Vikings ne ha seguito le orme. Il materiale promozionale della serie, imperniato sulla ruffianissima tagline “Storm is coming”, ha però fatto temere qualcosa di più e di peggio, ovvero che si trattasse di un vero e proprio clone di Game of Thrones, e soprattutto un Game of Thrones dei poveri(ssimi). In realtà, nonostante non sia difficile trovare dei punti in comune, soprattutto sotto l’aspetto visivo (oppure, per essere maligni, nel livello non eccelso del cast di entrambe le serie), le due produzioni si muovono su binari abbastanza distinti, e non solo perché una contempla l’esistenza di draghi, esseri soprannaturali e magia, mentre l’altra ha l’ambizione di avere a che fare con la realtà e con la storia. Di sicuro Vikings non mira ad eguagliare la complessità della trama di Game of Thronos, ma è soprattutto a livello di temi profondi (le forme e gli effetti del potere in un caso, la sete di conoscenza e la pulsione verso la scoperta e l’avventura nell’altro) che le due serie sono abbastanza distanti, per quanto anche Vikings posi occasionalmente il suo sguardo sulle dinamiche del potere (siano esse relative all’ambito dell’organizzazione tribale o di quella familiare) interne alla società norrena. Inoltre, la seconda grande differenza è inerente al soggetto della narrazione: Vikings è, in gran parte, la storia di un singolo individuo-eroe, Ragnar, in opposizione alla trama corale della controparte HBO. Che poi ci siano alcune similitudini anche nel contenuto è un dato di fatto, ma è difficile dire se queste derivino da uno scimmiottamento da parte dell’ultimo arrivato nei confronti di una serie che ha ottenuto un successo planetario, o se invece si debba leggere al contrario, ovvero rintracciare nell’epica medievale, anglosassone e nord-europea, le radici del mondo creato da George R. R. Martin. Questa intersezione è particolarmente evidente nella figura del personaggio del re Ælle di Northumbria (Ivan Kaye): l’ispirazione sottostante alla caratterizzazione del re degli Angli è debitrice nei confronti del personaggio di Robert Baratheon, oppure è vero il contrario, ed è il rozzo e dissoluto (e ormai deceduto) ex-re di Westeros ad essere stato creato avendo in mente l’immagine ben poco regale tramandata dalle fonti storiche della personalità di alcuni sovrani protagonisti del Medioevo inglese?

“Insomma, alla fine ci par di capire che t’è piaciuto parecchio, no?“

L’ho detto, al netto di qualche sbavatura e ingenua semplificazione, l’ho trovata piacevole da seguire. Però ci sono un paio di aspetti, alcuni piuttosto significativi, che mi trattengono dal tesserne le lodi in modo più convinto.

Marylin Manson, aka The SeerIl mio primo problema non è tanto che la sbandierata accuratezza storica, in certi passaggi, vacilli non poco, inducendo anche in un non addetto ai lavori come me il sospetto che di storico ci sia ben poco. L’ho detto e lo ripeto, la verosimiglianza e la coerenza interna possono essere valori sufficienti tanto quanto la veridicità. Purtroppo, a dare continuamente una spallata al tentativo di costruzione di un mondo verosimile ci sono le scelte fatte in ambito linguistico, dove all’intuizione tutto sommato fortunata di far recitare gli attori (in gran parte britannici e irlandesi, con l’aggiunta dell’australiano Fimmel) con un accento indefinito, non marcato geograficamente ed in grado di suggerire tramite questo espediente una generica “esoticità”, si combina una scrittura (ancora lei!) dei dialoghi davvero poco curata, non tanto nei contenuti quanto nella forma. Mi rendo conto di non avere alcun elemento e nessuna competenza per ipotizzare quale fosse il modo di parlare degli antichi vichinghi, ma mi sento pronto a scommettere che l’interazione tra due parlanti scandinavi nell’Anno del Signore 793 non suonasse così vicina ai dialoghi dal sapore contemporaneo a cui si assiste nello show. Tuttavia, non è su questo che verte la mia critica principale: magari ai più sembrerà una pignoleria di nessun rilievo, ma quello che ho avuto difficoltà a digerire è la poca cura riposta nella differenziazione linguistica, e soprattutto il totale disinteresse per le enormi difficoltà nello stabilire una comunicazione che inevitabilmente ci devono essere state nell’incontro tra popoli che, fino a cinque minuti prima, erano totalmente ignari l’uno dell’altro. La mia teoria è che, se da un lato è inevitabile che i vichinghi, in quanto protagonisti, si esprimano necessariamente in inglese (contemporaneo, quantomeno nel lessico), tutte le altre popolazioni NON possano e non debbano esprimersi nello stesso inglese, neanche gli Angli, che pure potrebbero accampare qualche diritto in tal senso. Tutti i non-vichinghi dovrebbero esprimersi in una lingua possibilmente poco familiare allo spettatore — sottotitolata se si desidera che lo spettatore capisca, e non sottotitolata se l’obiettivo è quello di far assumere allo spettatore il punto di vista dei protagonisti della serie, ovvero quello di un vichingo che si trova davanti un tizio armato di tutto punto che urla qualcosa di incomprensibile in una lingua di cui non capisce nulla di niente, e deve cercare di ricostruire il senso come facciamo tutti noi quando ci troviamo di fronte a qualcuno che non parla la nostra lingua e del cui idioma non comprendiamo un singolo fonema. Ho l’impressione che questo debba essere sembrato ovvio anche agli autori, dato che le prime battute dei monaci di Lindisfarne sono pronunciate in inglese antico (sottotitolate, per quelli come me che lo masticano a fatica), e ha fatto capolino anche un po’ di latino. Purtroppo, questa macroscopica differenza è stata annullata con un colpo di spugna, e nel giro di pochissimi minuti (minuti! non episodi, minuti!) dal contatto con l’invasore vichingo la mutua comprensione tra i parlanti era data per scontata, facendo immediatamente perdere di senso l’intero mito di Babele. Paura degli autori di avere a che fare con un pubblico dalle risorse cognitive troppo limitate per seguire con i sottotitoli un dialogo in una lingua non familiare? Timore che la sensazione di smarrimento di fronte alla mutua incomprensibilità fosse troppo forte? Pigrizia nel dover necessariamente scrivere una sceneggiatura che tenga costantemente conto di questa difficoltà comunicativa? Una somma di tutte queste ragioni? Non lo sapremo mai. Ma il rammarico resta, perché sono davvero convinto che questo aspetto abbia un ruolo decisivo nella costruzione di una realtà diversa da quella che ci è familiare, e trovo che la scelta di azzerarlo sia contraddittoria con lo spirito che è alla base della serie, e ne limiti di molto la possibilità effettiva di fare un po’ di onesta e non pretenziosa divulgazione culturale. Al contrario degli autori di Vikings, ritengo che la cura dell’aspetto linguistico sarebbe stata, per certi versi, una barriera all’ingresso in grado di scoraggiare qualche spettatore occasionale, ma avrebbe garantito a tutti gli altri un’immersione più profonda nel contesto storico, con presumibile incremento del livello di coinvolgimento.

English motherfucker, do you speak it?!Che poi il “problema” linguistico può essere risolto in molti modi. Si pensi, ad esempio, a Deadwood, dove la durezza della frontiera è rappresentata per mezzo del linguaggio più crudo e volgare che mai si sia sentito in una serie tv. David Milch non voleva certo implicare che quel modo di esprimersi fosse riproduzione fedele del registro linguistico dei coloni di fine ‘800 in una terra in cui lo stato di diritto è quantomeno dubbio, ma piuttosto rafforzare la percezione di determinate caratteristiche della vita di quegli stessi coloni di fine ‘800. Ecco, mi sarebbe piaciuto che Vikings avesse avuto il coraggio di sperimentare una soluzione di questo tipo, anche al netto dei mille mila f**k e c**ksuckers (statistiche alla mano). D’altra parte, in giro per il web mi pare di aver letto che i personaggi di Milch fossero definiti dei “cowboys cursing like sailors”, il che autorizza a pensare che l’inverso, “sailors cursing like cowboys”, sarebbe potuta essere la soluzione perfetta per i nostri navigatori scandinavi!

Athelstan is a nerdC’è poi un secondo aspetto, in parte legato al precedente, che ho mal sopportato nel corso di questa prima stagione. Si tratta della figura del monaco Athelstain (George Blagden), rapito da Ragnar in occasione della razzia di Lindisfarne perché… l’ho detto, Ragnar è curioso e progressista, quindi piuttosto che decapitarlo con un preciso fendente, e fare altrettanto con il monaco successivo, ha pensato bene di risparmiargli la vita e portarlo a casa con sé, per farsi insegnare la lingua e raccontare i costumi di queste buffe popolazioni che abitano la terra d’Albione. Questa improbabile ragione rende del tutto evidente che Athelstan non sia niente più che un orribile espediente narrativo utile a trasportare un punto di vista “occidentale” (nel quale, suppongo, gli autori della serie vedono la possibilità di far identificare il “lettore ideale” del loro prodotto) attraverso cui cercare di comprendere la weltanschaaung dei nostri nuovi amici vichinghi. All’interno della storia, il monaco riveste un poco credibile ruolo di “mediatore culturale”, ed oltre a tendere inevitabilmente al didascalismo (ovvero, porre domande a Ragnar per ottenere spiegazioni sul modo di vivere degli scandinavi di cui noi spettatori siamo i beneficiari finali), è l’espressione più acuta della sciagurata rappresentazione dell’universo linguistico. Per poter svolgere questo ruolo, infatti, il nostro giovane monaco deve comprendere e potersi esprimere nella lingua dei vichinghi, ed in effetti sin dal primo incontro Athelstan diventa il traduttore portatile di Ragnar, senza che sia spiegato dove e come egli abbia imparato il norreno, se da autodidatta attraverso Rosetta Stone, o abbia piuttosto trascorso a Oslo il suo periodo Erasmus durante gli anni del seminario. Incongruenza ancora più grave è il talento soprannaturale per l’apprendimento delle lingue dimostrato da Athelstan: se al primo incontro poteva confessare di capire solo qualcosa della lingua parlata da Ragnar, nel giro di qualche episodio i due nuovi amici possono amabilmente discutere di teologia.

Ma forse la pecca più grande di tutte, il colpo di grazia alla mia teoria della necessità di uno show mainstream che andasse a pescare nel ricco immaginario scandinavo e si nutrisse di quel revanscismo paganeggiante che ha animato una delle ultime grandi ondate innovative nella storia della musica metal, è quella di non aver usato la musica degli Enslaved come colonna sonora della razzia dell’abbazia di Lindisfarne. Questo non so se riuscirò mai a perdonarlo, al buon Michael Hirst.

Note a margine

  • Oltre alla sigla, applauso e menzione speciale per il logo della serie, a mio parere davvero di ottima fattura. Qui si può leggere qualcosa sulle linee guida che hanno ispirato il logo e sui vari significati che si celano nei dettagli del design.
  • Il ménage à trois era una pratica molto comune tra le giovani coppie vichinghe, che spesso amavano includere un terzo partecipante, ancora meglio se proveniente da una terra sconosciuta fino all’altro ieri, per dare un po’ di brio ai loro incontri amorosi. No, davvero, è storia: l’ha detto History Channel.
  • Bjorn (Nathan O’Toole), figlio di Ragnar, è stato per quasi tutta la stagione un ragazzino non troppo brillante con un taglio di capelli interessante. Ma sul finire della stagione ha cominciato a dare i primi sinistri segni di devianza: piccoli psicopatici Joffrey crescono?

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