Wanderful Asia #3 – Iran

Questa volta la nostra scelta è caduta su uno stralcio molto sofferto e empatico. Al freddo patito da Mario e Thomas associamo una recensione a un intenso romanzo di Pamuk Il mio nome è rosso per congedare Istambul e la Turchia e affacciarci con respiro più ampio ai paesaggi innevati del confine iraniano.


A Gaziantep ormai era chiaro che sarebbe stata dura. Le cime azzurre delle montagne si vedevano già e la pioggia che ci eravamo portati appresso diventava affilata come una lama di rasoio. Tutto intorno a noi il mondo sarebbe diventato bianco, come un sonno con troppi sogni. Già, lo sapevamo che sarebbe stata dura ma non avevamo ancora idea di quanto dura sarebbe diventata.

Avevamo letto di Mardin e decidemmo di fermarci lì per un paio di giorni, sia noi che la moto avevamo bisogno di un po’ di coccole e l’idea di una sosta in un posto piacevole non ci dispiaceva. Il trasferimento è stato di una noia pazzesca. Ora, alcune strade fanno davvero il possibile per divertirti: girano, ballano, salgono, ondeggiano e alla fine ti portano un po’ più lontano da dove dovresti e un po’ più vicino a dove vorresti. E vorresti che non finissero mai. Altre, come questa, si attengono scrupolosamente al proprio dovere: uniscono A e B con l’entusiamo e la fantasia che c’è in un intero positivo.

Comunque sia, alla fine arrivammo a Mardin. In realtà ci sono due Mardin, quella in cima alla collina e quella sotto. Ci siamo rifiutati di fare foto alla seconda mentre l’altra è più o meno così:

Mardin

Lasciata la città, abbiamo cominciato a salire. E salire. E salire. Il sole ce l’ha messa tutta per scaldarci ma la temperatura non s’è mai alzata sopra lo zero. Tanti i cambiamenti cui abbiamo assistito quel giorno. I colori che viravano verso il bianco, le montagne che iniziavano a dominare il paesaggio e soprattutto gli sguardi della gente che passavano gradualmente dal “wow, mi piacerebbe venire con voi”, al “ehm, bel viaggio”, al “hey, ma non fa un po’ freddo?”, al “voi siete scemi, addio e buona fortuna”.

Arrivati in qualche modo a Tatvan, decidemmo di prendere il traghetto che porta a Van, sull’altra sponda del lago. Di un orario ufficiale manco a parlarne, la nave sarebbe partita se e quando ci fosse stato qualcosa da portare dall’altra parte e quindi il piano è stato di aspettare sul molo finché non fosse passato qualcosa. E qualcosa è in effetti passato. Dopo quattro ore. Purtroppo, l’unico passatempo era la macchina fotografica. Per parenti stretti, amici intimi e fotofeticisti abbiamo uno studio completo delle abitudini diurne dei gabbiani di lago, un rapporto abbastanza esaustivo sulla relativa vita acquatica e un interessantissimo studio sulle interazioni uomo/insetto osservabili da uno sgabello arrugginito piazzato nel mezzo di un campo innevato. A tutti gli altri, queste due dovrebbero bastare:

Wanderful Asia Wanderful Asia

Una volta sul traghetto, siamo stati avvicinati dal capitano evidentemente desideroso di fare due chiacchiere con qualcuno. Ora, il nostro amico parlava esclusivamente il turco e il nostro vocabolario ammontava alle tre parole per “amico”, “freddo” e “pane”. Forti di tale bagaglio, ci siamo lanciati in un’accesa discussione sul Kurdistan, la Turchia, il mondo, la vita e l’universo. È sorprendente quanto si riesca a comunicare coordinando sapientemente le espressioni facciali, le mani e se serve pure i piedi. Per esempio, siamo abbastanza sicuri che il nostro interlocutore avesse 46 anni e che volesse, un giorno, vivere in un Kurdistan libero. D’altra parte, ci resta qualche dubbio su quella storia di quando salvò il suo villaggio dall’attacco dei pesci volanti e siamo quasi certi che stesse mentendo quando ci raccontò di essere sposato con una donna barbuta alta tre metri e quasi perfettamente sferica.

Siamo arrivati a Van che era buio e il termometro segnava -10. Abbiamo rischiato di assiderarci nei cinque chilometri che separano il porto dalla città. Ancora non sapevamo che tutto ciò sarebbe diventato routine nei giorni seguenti. Lasciata la città un paio di giorni di dopo, il paesaggio è diventato glaciale:

Wanderful Asia

Il primo tentativo di entrare in Iran è fallito clamorosamente. Dopo aver guidato tutto il giorno verso Karakoy su una strada solitaria e battuta da un vento gelido siamo arrivati in frontiera, solo per scoprire che era chiusa. E nessuno aveva idea di quando avrebbe riaperto. Un doganiere ci ha consigliato di tornare a Van e tentare di entrare da Yuksekova. Yuksekova! Al suono di quelle parole ci si è gelato il sangue nelle vene: il giorno prima, guardando la TV, avevamo sentito che in una città di nome Yuksekova la temperatura era arrivata a -29. Lì per lì ci avevamo scherzato su. Ora il destino stava consumando la propria vendetta.

Gli ultimi 20 km prima della frontiera erano praticamente una pista da sci, e nemmeno delle più facili: Tornando indietro, ci siamo fermati a Saray, dove siamo stati salvati da una meravigliosa famiglia curda che ci ha accudito e accolto in casa:

Wanderful Asia

Il mattino seguente, dopo i saluti di rito, la parola Yuksekova echeggiava minacciosa nei nostri caschi. Yuksekova. Ekova. Ova. Ah …

[il blog di Mario e Thomas]


La finestra turca

Affacciarsi verso un panorama diverso, accostarsi ad una finestra dischiusa su un mondo differente, dolcemente aprirla, farsi invadere gli occhi dalla luce. Rimanere spaesati un attimo, fermi, immobili. E poi piano piano riprendere a riconoscere i contorni delle cose, a vedere i colori e a scoprire che quello che c’è di fronte ai noi è meraviglioso, straniante. Ci appassiona e ci incuriosisce, ci invita a partecipare. Il libro di Pamuk è una finestra su una cultura diversa dalla nostra, che affonda le radici in tempi lontanissimi, ibridata da innumerevoli scontri-incontri con altre culture.

Ci troviamo alla fine del 1500, 1591 per la precisione. La città è Istanbul, caotica, chiassosa, viva. La città è la protagonista occulta del romanzo, nuovo simbolo dell’incontro tra popoli e idee. C’è un assassinio, strano, importante. Il morto, che apre la narrazione, è un miniaturista del Sultano. L’omicida rimane misterioso e viene chiamato  il calligrafo Nero ad indagare. La storia è torbida. C’è Zio Effendi che dirige i lavori per un nuovo libro segreto commissionato dal Sultano. Il libro è diverso, molto diverso dalla filosofia e dalla concezione della miniatura classica turca. Il libro vuole far vedere le cose secondo l’arte dei maestri veneziani. Nel libro c’è un ritratto del Sultano. Si infiammano le discussioni, le liti, i malintesi. Ma Il mio nome è rosso non ha solo la carica del giallo. C’è una storia d’amore tra la bella Sekure e il timido Nero, c’è il contrasto tra Maestro Osman e Zio Effendi, due vecchi miniaturisti che vedono l’arte in maniera diversa. Tramite questi scontri-incontri il romanzo ci introduce ad una cultura diversa e ricchissima, ad un mondo che tante volte si è tentato di capire con l’ausilio di analisi politiche e sociali ma al quale mai ci si avvicina come in questo caso. Il libro è un’immersione in apnea in un mare quasi sconosciuto e ci aiuta ad esplorarlo.

La varietà delle voci narranti è un’altra peculiarità dello scritto di Pamuk. In ogni capitolo c’è un personaggio diverso che ci parla e che racconta. Accanto agli uomini hanno dignità di parola anche i colori, gli animali e i disegni. Il libro è una miniatura illustrata con parole. Alla fine, quando la storia è dipanata, quando la trama e gli intrighi sono svelati, ci si trova ad osservare un enorme dipinto a cui tutti i personaggi prendono parte variamente dislocati al suo interno. E allora a noi non resta che ammirarlo.

Titolo: Il mio nome è rosso
Autore: Orhan Pamuk
Editore: Einaudi Tascabili
Dati:  2006, 450 pp., 13,00 €

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