Yasmina Reza, ART: Ridete e starete sani

L’amore non ha età: abusato luogo comune. L’amore non ha età, direbbe un pedofilo: battuta di cattivo gusto. O provocazione sul Male per esorcizzarlo? Un dilemma che ritorna ogni volta che si affrontano temi che la morale censura. È un peccato che il Bene produca così poca fascinazione. La grandezza di Nabokov è costretta a lasciare la scena a una dodicenne che prende il sole in giardino; la grandezza di Nabokov è anche nel costringere i lettori a perdersi senza rimedio dietro i capricci di Lolita. Linguaggio o metalinguaggio? Si parla del soggetto per saggiarne il colore o per prenderne le distanze? Le veline che sculettano a Striscia la notizia sono una satira delle vallette che sculettano o un salvagente per gli ascolti? Mescolare l’alto e il basso denota quasi sempre l’assenza di un solido discorso alle spalle. Prendiamo le quotazioni astronomiche dell’arte concettuale, il Teschio di diamanti di Damien Hirst: tralasciata qualsiasi velleità estetica, il ricco acquirente si porta a casa un simulacro che gli ricorda quant’è idiota, dal momento che anche lui – così pare – dovrà morire. Congratulazioni. E il vuoto d’artista? Ci si potrebbe almeno consolare con l’idea che in questo caso l’opera non sottenda un messaggio? Sarebbe confortante, se la mancanza di significazione non veicolasse un contenuto ancora maggiore. E «un quadro bianco, a righe bianche», del valore di duecentomila euro, è l’accidente scatenante di Art, la commedia di Yasmina Reza del 1994, tradotta in più di venti lingue e gran successo in mezzo mondo. L’autrice franco-iraniana era tornata alla ribalta l’anno scorso dopo l’uscita di Carnage di Roman Polanski, trasposizione della sua pièce Il dio del massacro e a seguire, sull’onda dell’attenzione suscitata dal film, Art è stato riproposto anche in Italia per la regia di Giampiero Solari, con le interpretazioni glamour di Alessandro Haber, Alessio Boni e Gigio Alberti. Dal 2 al 6 maggio ha fatto tappa al Teatro Massimo di Cagliari, suscitando anche qui un vasto consenso di pubblico.

Io ci sono andato un po’ per caso, era domenica nel tardo pomeriggio e dovevo salutare un’amica che vive a Parigi, ma era tornata in Sardegna per votare (i primi referendum anti-casta ideati dalla casta stessa non sono un evento da poco). L’idea era quella di fare una passeggiata nel centro storico approfittando dei Monumenti Aperti (una di quelle lodevoli iniziative che le istituzioni finanziano per stimolare i cittadini a riscoprire un illustre passato – venendo poi così spesso a mancare, di questi tempi, una rosea prospettiva per il futuro). Se solo non si fosse messo in mezzo un acquazzone primaverile. Può mai piovere a Cagliari – dove non piove mai – proprio il sei maggio?! Sarà l’effetto serra o gli scherzi del caso ma ebbene sì, può accadere. Non va dunque sottovalutata l’incidenza dei rovesci temporaleschi sull’afflusso nei teatri. Certo, anche i divi del cinema/fiction/tv danno una mano e in questo caso, come detto sopra, eravamo piuttosto forniti.

Una volta seduti in platea, il sipario aperto e le luci in scena, di primo acchito sembrava quasi di stare in un salotto televisivo. La scena raffigura un interno borghese essenziale, dominato dal bianco e dalle tinte tenui, che resterà di base lo stesso nell’ora e mezza di spettacolo, salvo per lo scorrere di pannelli semitrasparenti che creano, di volta in volta, riquadrature interne alla scena e che permettono gli “a parte” nei quali i personaggi, isolati dalle luci, aprono se stessi agli spettatori. Giampiero Solari, oltre a una trentennale carriera teatrale, vanta anche la regia di alcuni degli show di maggior successo negli ultimi anni sul piccolo schermo. Per la produzione di Bibi Ballandi ha infatti curato la regia degli spettacoli di Gianni Morandi, Lucio Dalla e Fiorello, fino all’ultimo trionfo de #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend lo scorso autunno. La TV si può prendere come pietra di paragone della pièce: da un lato l’ambientazione rimanda alle sit-com e si mantiene l’unità di tempo e di luogo senza la canonica progressione in atti, ma lasciando montare il testo su una serie di diciassette sketch innestatiti uno sull’altro, sul crescere dei malintesi, delle ripicche e degli scontri (anche fisici) fra tre amici di vecchia data che si ritrovano per andare a cena, dall’altro, l’idea che si possa ridere con levità e senza ricorrere ad escamotage banali o volgari, da tempo non trova più spazio d’espressione sulle nostre reti. I protagonisti: Serge (A. Boni) è un affermato dermatologo che spende duecentomila euro per acquistare l’ultima opera di un pittore di grido; Marc (G. Alberti) è un caustico ingegnere aeronautico che ama l’arte pre-modernista e lo dileggia per l’acquisto di quella “merda bianca”; Yvan (A. Haber) è il vaso di coccio tra i primi due, un ex commerciante caduto in rovina che tenta di sistemarsi con un matrimonio tardivo, e che cercherà invano di far da paciere finendo invece per essere vessato da entrambi. La vacuità dell’arte contemporanea (il quadro bianco, a righe bianche) serve da espediente per evidenziare quanto poco basti a far vacillare l’amicizia virile, topos celebrato da una secolare tradizione non solo drammaturgica. Yasmina Reza, un’epigona minimalista del teatro di Ionesco, non riesce mai ad intaccare davvero il nucleo del pensiero debole che permea la borghesia, arrivando quasi ad inscenare, per paradosso, un apologo del campionario di tic e nevrosi nelle quali tutti, cittadini spaesati dell’età della tecnica, finiamo fatalmente per ritrovarci. Aggiungiamo la grande facilità comunicativa, l’innato senso del ritmo e la capacità di imbastire un plot coinvolgente quasi a partire dal nulla, ed ecco spiegati gli applausi convinti del pubblico in sala.

Io e la mia amica ci siamo uniti agli applausi e siamo usciti dal teatro di buon umore, per giunta aveva smesso di piovere, cos’altro desiderare di più? La catarsi con riflesso pedagogico, rispenderebbe certa critica di sinistra (sarà anche crollato l’URSS, ma la dittatura del Messaggio è dura a morire), la cognizione di un dolore seminale per la crescita dello spettatore. Pazienza, anche solo edificare uno spettacolo su basi così effimere è indice di aderenza al contemporaneo: non c’è altro tabù più radicato nella società dei consumi dell’idea del vuoto (il quadro bianco, a righe bianche). Il vuoto pneumatico delle trasmissioni di Boncompagni, il montaggio alternato di Blob, la scrittura orizzontale di Bret Easton Ellis, il Dito medio di marmo di Cattelan, il pop necrofilo di Lana Del Rey: il vuoto che si fa poetica o resta mera rappresentazione? Intrattenimento, questa è la chiave nella maggior parte dei casi: per fare del buon intrattenimento bisogna essere molto bravi. Per diventare persone migliori, ci saranno di sicuro altre occasioni.

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