Al mio fratellino piacciono i 90’s
Va bene, fino ad ora abbiamo scherzato, temporeggiato direi. È il momento di togliere il velo a questo 2011 e di parlare di album decisamente importanti, di quelli che per freschezza e vitalità probabilmente verranno ricordati a lungo. È il caso dell’album d’esordio degli Yuck, quartetto londinese che strizza l’occhio alla musica d’oltreoceano. Periodo di riferimento: i gloriosi anni ’90. Fuzz e chitarre distorte condite da melodie appiccicose possono dare l’idea dello stile generale dell’album.
Mi era capitato di vedere gli Yuck nell’esatto momento del mio arrivo a Milano. La Camper insieme a Vice organizzava degli showcase in cui ogni venerdì chiamava una band a esibirsi. E i primi della lista erano stati proprio gli Yuck, quando all’attivo avevano solo un paio di canzoni tutte scaricabili gratuitamente dal loro blog. E, devo dire, l’impatto con la band inglese era stato molto positivo: dal vivo i quattro ragazzi (sono tutti intorno ai vent’anni) le avevano, come si suol dire, fatte vedere. Buon attitudine al palco, ottimi suoni senza, come spesso accade per queste band che amano il rumore, buttarla in caciara, anzi. Potenza e tenerezza allo stesso tempo. Una carezza in un pugno, direbbe Celentano.
Ed è esattamente quello che accade in questo album omonimo uscito proprio qualche giorno fa in USA (in Europa uscirà il 22 di febbraio) per i tipi di Fat Possum. L’apertura è di grande impatto, con i primi tre pezzi gli Yuck fanno subito capire cosa sanno fare mettendo l’accento da subito su tutti i loro pregi. Get Away e The Wall trascinano con il loro andamento sostenuto mentre Shook Down ci mostra l’altro lato della medaglia, addirittura quasi twee. Dopo una tripletta così si potrebbe pensare a una pausa. Invece no, questo era solo il riscaldamento, dalla quarta traccia in poi il disco entra nel vivo. Ed ecco dunque il singolo Holing Out seguita dalla zuccherosa Suicide Policeman per poi continuare con il power pop contagioso di Georgia e la sublime malinconia di Suck. Operation invece è un inno ai Sonic Youth più diretti, un pezzo che conquista per il suo essere diretto, mentre Sunday ricorda gli Smashing Pumpkins più “allegri” (quelli di Today per intenderci). Ma il disco termina con Rubber, un pezzo di oltre sette minuti in cui, lentamente, Blumberg e Bloom (i due chitarristi) incalzano il ritmo. Ed è qui che il contrasto tra fuzz e melodia si fa al contempo più aspro e interessante portando alla mente le ultime produzione degli Yo La Tengo.
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Insomma un album perfetto sembrerebbe. Eppure una punta di scetticismo rimane. Il revival anni ’90 sembra fin troppo esplicito in questo lavoro, pare una roba studiata a tavolino e poco spontanea. A cominciare dal nome (Yuck in inglese è un espressione colloquiale che comunica disgusto – il nostro puah! Per intenderci) che riporta a un ben definito immaginario, passando per l’artwork, il video di Holing Out e il look dei quattro. Insomma c’è qualcosa che non torna. Però, mi dico, a noi cosa importa? Le canzoni sono belle? Dal vivo se la sanno cavare? Bene, ci basta questo. Gli Yuck ci piacciono e molto.
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Yuck – Holing Out from Yuck on Vimeo.
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