Ci sono cavalieri che peggiorano i cavalli, e cavalli che migliorano i loro cavalieri

Batman: “Cosa volevi dimostrare? Che sono tutti mostruosi come te?” (battuta del film Il cavaliere oscuro, 2008)

A caval Donato non si guarda in bocca, certo. E a cavalier Silvio? Esiste un’antropologia berlusconiana e se si come si manifesta? Sostituendo al binomio usurato bastone e carota, il global junk-food dolcetto o scherzetto? È una mutazione genetica o neuronale? E come la si ferma? Con quali strumenti? È qualcosa di simile a un batterio in espansione, oppure il berlusconismo più che una causa è un sintomo, il segnale di una patologia che unisce un non Paese? Queste domande le ha poste Giuliano Battiston, giornalista free lance, nel corso di un seguitissimo dibattito che si è svolto a Roma al Salone dell’editoria sociale  appena concluso. Il titolo dell’incontro era: “Italia 2010. L’antropologia degli italiani al tempo di Berlusconi e delle tv”. Come discuterne senza cadere nella rassegnazione o nelle sabbie immobili dell’abituale denuncia? A chi dare i resti? Al cavallo? Al cavaliere? Alla paglia o al fieno? Per il sociologo Stefano Laffi, né cavallo né cavaliere,  l’attenzione va focalizzata su stalla e stallieri da cui comincia questa assurda nostra storia. E poi valutare di quanti aspetti si compone la grande mutazione. Laffi ne elenca alcuni. Il processo dei consumi esasperato e “l’effetto ipnotico di farci credere uguali”; l’idea della “possibilità del lusso come occasione forte di avere cittadinanza”. La tv, citata quella di Maria De Filippi che “ha riabilitato il soffrire del proletariato come soggetto tv da prima serata”.  La fatica in questo Paese di usare un registro serio, “una sorta di cabarettizzazione di ogni discorso”; di contro una normalizzazione dell’indifferenza che coincide con il sorpasso avvenuto in questi anni della cronaca sulla storia. E poi la “disaffezione alla dimensione politica più ampia”. Nell’apocalissi che si avverte nell’aria ci si salva, si pensa di riuscire a salvarsi, ma da soli. È scomparso il senso della comunità, è il trionfo dell’individualismo. Tutti piccoli cloni, cavalieri micro tanto macro nell’essere erranti e solitari. “Ma il vero elemento di novità è il venir meno di ogni mediazione verbale, la violenza è un virus polverizzato che può esplodere da un momento all’altro, in qualsiasi luogo”.  Purtroppo i tragici riscontri sono continui.

Per lo scrittore Nicola Lagioia, “non è un meteorite caduto dalla parte di Arcore ad aver fatto nascere l’antropologia berlusconiana”. E il berlusconismo “come qualcosa che capita sempre a qualcun altro” non sta in piedi. È un prodotto nostro, è “cosa nostra”; viceversa, altrove non avremmo avuto che un imprenditore di grandi capacità. Invece nel paese “anticalvinista per eccellenza”, e dell’etica delle intenzioni – cattive – che prevale sempre sull’etica dei risultati, capita questo e altro. E l’assurdo diventa realtà.

Giorgio Vasta, scrittore ed esploratore del nostro “Spaesamento” (come da titolo di un suo reportage intimo e politico), segnala che “essere italiani oggi è un modo specifico di essere umani”. La galassia Berlusconi, questa nebulosa, è “un luogo dove si produce un transito di senso che tiene dentro anche una transizione”. E forse alla fine in questo castello-azienda tutto diventa transazione, l’esistenza stessa: “può darsi che il senso sia commerciabile, che viviamo in un luogo dove si può comprare il senso”. Di sicuro viviamo una strana patofobia in pantofole che viene applicata con ardore e dedizione a qualcosa di già accaduto. Vasta cita a ragione Roland Barthes: “Ho paura per un trauma che ha già avuto luogo”. Siamo un impasto del genere: “Produzioni emotive che hanno a che fare con qualcosa che è già accaduto e non riusciamo a spiegare”. L’abbiamo fatto accadere e siamo ancora rintronati. C’è un dottore in sala? C’è un medico da qualche parte in questo non Paese?

Rovescia completamente tutte le analisi e le sintesi Vittorio Giacopini, scrittore, giornalista, redattore de “Lo straniero” diretto da Goffredo Fofi. Macché antropologia berlusconiana. Non è questione di modello di consumi e tv commerciali sempre evocate.  Il cavaliere “incarna i mali italiani” e che si sia trasformato da “piccolo imprenditore a signor tutto dell’Italia, è fenomeno che poteva accadere solo da noi”. Noi, ma noi chi? È questo il punto. Chiedete a Leopardi, Giacomo, a Guicciardini, Francesco, e troverete la risposta. Giacopini lo fa e trova la chiave di lettura. “Gli italiani sono un popolo che non ha costumi, ma solo abitudini”, sosteneva Giacomo. “Siamo un popolo e continuiamo a non essere stato”, chiosa Vittorio che si rivolge anche a Guicciardini, per ciò che riguarda il “particulare”, il tornaconto personale che si insinua in ogni azione e reazione. A ciò si abbina “la straordinaria capacità d’essere coscienti e menefreghisti, insieme”. Torna ancora Leopardi nell’argomentazione di Giacopini: “l’inefficacia non è mai efficacissima come in Italia, l’inazione non è mai così inattiva”. Se siffatti sono i presupposti, e lo sono, bisogna aggiungere che in questa epoca “è saltata la cornice democratica della vita del paese perché la politica non conta più niente”. Giacopini individua l’avvio di questo processo in coincidenza con la fine della prima Repubblica: “non un gioiellino da rimpiangere, ma il punto è che in Italia il processo è stato particolarmente penoso e faticoso perché con la democrazia sono finite anche le istituzioni, cosa che in Francia o in Germania non è accaduta”. In questo quadro, poi si è sviluppato un altro fenomeno abnorme. “La presenza della Dc durante la prima Repubblica canalizzava le pulsioni della Chiesa in una sua rappresentanza. Quando tutto ciò è saltato, la Chiesa ha avuto mano libera e incide in maniera pesante, facendo un curioso duetto con il suo opposto, Berlusconi il libertino”. L’inquisito, il bestemmiatore ed altre opzioni. E per chiudere il cerchio, un riferimento anche a Machiavelli, Niccolò. Il quale diceva che certi stati italiani del centro-sud, sono rappresentati da “molti onesti galantuomini”, ovvero gente abituata a vivere di rendita, a dettar legge, a considerare tutto in termine di proprietà privata, ad esercitare arbitrariamente il potere, a considerare gli uomini estensioni dei propri feudi. Machiavelli si chiedeva se mai fosse possibile, istituire una repubblica in situazione simile. Gli sembrava sconveniente, a meno che non si riuscisse a “spegnerli tutti”, questa l’espressione usata.  “Seicento anni dopo – conclude Giacopini – siamo in una situazione simile. La democrazia è parola e flatus voci, c’è un’enorme classe media senza configurazione politica, e siamo tornati all’oligarchia”.  Resta la ricetta di Machiavelli: “spegnerli tutti”. Ma anche il telecomando bisogna saperlo usare.

(il titolo di questo articolo è un aforisma ippico)