Canzoni per il disgelo

Ci siamo finalmente, sembra che il grande freddo sia ormai alle spalle. Ok, non cantiamo vittoria però, marzo sa essere crudele come pochi e non vorrei, così dicendo, scatenare la sua furia. Limitiamoci a un pugno di canzoni che ci aiutano ad andare nella giusta direzione, quella di un sole sempre più caldo e di un cielo con meno nuvole.

Gli Hospitality sono un trio di Brooklyn capitanato da Amber Papini, voce e chitarra –  nonché autrice di tutte le canzoni, più Nathan Michel (marito della Papini) alla batteria e Brian Betancourt al basso. Il loro disco d’esordio porta il nome stesso della band ed è uscito a fine gennaio per la blasonata Merge Records. Eppure l’album non ha goduto dell’attenzione che meriterebbe. È vero, posso confermarlo, non suona eccessivamente nuovo ma le canzoni, già dopo un primo ascolto, sembrano ispirate e pregne di languore indiepop da primi giorni di primavera. È un disco che, senza mezzi termini, mette bene e predispone verso il giorno a venire e le opportunità che la sera, all’imbrunire, potrebbe riservare.  La voce carezzevole della Papini ben si adatta ai diversi momenti dell’album, da quelli più movimentati come Friends of friends, The right profession e All day today, a quelli più squisitamente indie pop come Eight Avenue, Bettie Wang e The Birthday, fino ai brani più delicati e intimisti come appunto Julie, la malinconica Sleepover e Liberal Arts. Un disco luminoso, vario e aperto insomma, proprio come lo sono le possibilità della vita stessa, soprattutto tra i venti e i trent’anni, proprio quella vita che la Papini e gli Hospitality cantano in questo bell’esordio.

Al nuovo disco dei Fanfarlo, band anglo svedese, mi sono avvicinato invece con sospetto. Ero scettico della direzione che la band aveva intrapreso, e i singoli che avevano preceduto questo Rooms filled with lights (Canvasback Music/Atlantic, 2012) non mi convincevano del tutto in particolare  per un rimando a un estetica Bauhaus – se mi è concesso il termine – che poco vedevo a che fare con loro, invece così bravi in quel pop-folk di quarte e none à la Arcade Fire. Ma, come dicono loro stessi nella canzone Everything turns, tutto si trasforma, e così è stato anche per la musica dei Fanfarlo. Spogliatasi dall’aura arcadefiresque eccola che assume caratteristiche più geometriche fatta di ripetizioni e variazioni di forme, successione e sovrapposizione di linee: alle strofe, solitamente più chiuse, corrispondono le aperture dei ritornelli che fanno esplodere la canzone come i fuochi d’artificio in cielo, restando però sempre fedeli all’orchestrazione che ce li aveva fatti conoscere. Tutto questo vi farà intuire come, da subito, il disco mi abbia fatto cambiare idea sui destini della band. In particolare, l’inizo del disco, le cui canzoni seguono tutte la legge riportatata sopra, è travolgente: la ballad per quartetto Replicate, pezzo d’apertura, la più incalzante Deconstruction, la bellissima Lenslife e la gioiosa Shiny Things fino all’altra perla di questo disco, Tunguska, così calda con i tutti i suoi fiati. Il già citato Everything Turns invece fa da spartiacque dell’album, che dopo improvvisamente perde qualità: non che le canzoni successive siano terribili ma non hanno più lo smalto dei primi pezzi, andando a scadere nella maniera e nella variazione sul tema. Insomma, un finale un po’ fiacco rispetto ad un inizio davvero convincente, che comunque basta a far girare il pollice in alto per  questa nuova creatura dei Fanfarlo. Nonché a spingerci ai loro concerti e a seguire le loro, si spera, prossime fatiche.

Se poi volete proprio qualcosa di diverso, qualcosa che suoni tropicalista con atmosfere melò felliniane, qualcosa che abbia più a che fare col mare e il mediterraneo, capace anche di andare oltre l’equatore senza perdere di vista il pop anglosassone che tanto ci piace, be’ quello che fa per voi è Archeology of the future (Pias, 2012), disco d’esordio dei Vadoinmessico. Della band, di stanza a Londra, ma multiculturale fino al midollo (ne fanno parte due italiani, un austriaco, un messicano e un inglese e no, non è una barzelletta), si sentiva già parlare da un po’ di tempo, e qualche canzone era già apparsa qui e là. Adesso invece c’è un disco vero e proprio, fatto di tredici pezzi, capace di far schizzare la barretta di mercurio del termometro. Il suono dei Vadoinemessico, come già accennato, è un mondo a parte e punta dritto a sud: si comincia con la title track Archeology of the future per poi trasferirsi tra palme e sabbia con Peepita Queen of The Animals; con Teeo invece entriamo nel territorio della nostalgia, mentre In Spain strizza l’occhio alle ballad dei Vampire Weekend. Ma non è finita qui, andando avanti affiora la tradizione italiana delle colonne sonore in The adventur of a diver e Me Desert (il discorso in italiano in sottofondo io non sono riuscito a riconoscerlo, voi?), mentre Pond conserva qualche eco dei Dodos che furono (quelli belli di Visiter, per intenderci). Il disco si chiude con Cave, ballad dal retrogusto dolce amaro, seguita a ruota da Solau, unico pezzo tribale della lista, con flauti e percussioni in primo piano, che stanno a ricordarci che in fondo fare musica è una festa. E partecipare, anche solo ascoltando, è sempre bello, soprattutto adesso, che il gelo, forse, ce lo siamo lasciati alle spalle.

Ascolta l’album in streaming qui