Il crocifisso di Stato: una storia da raddrizzare

Il 18 marzo 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo – organo del Consiglio d’Europa e non dell’Unione Europea come spesso erroneamente si sostiene – si è pronunciata contro la signora Soile Lautsi, cittadina italo-finlandese di Abano Terme, in provincia di Padova. Nel procedimento Lautsi vs. Italy, la nostra concittadina aveva sostenuto che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche costituiva una violazione della Costituzione italiana, che dal 1984 non riconosce più la religione cristiana, cattolica e romana come unica religione di Stato. Dopo un primo pronunciamento a lei favorevole nel 2009 e dopo il ricorso da parte dello Stato italiano, è arrivata la sconfitta, salutata in coro dalla nostra classe politica, che quando si parla del simbolo religioso si raccoglie in una prodigiosa union sacrée. Di sconfitta si tratta, non bisogna girarci attorno. Ma di che tipo di sconfitta stiamo parlando: soltanto giuridica o ben più ampia, culturale, politica, storica?

Il crocifisso di Stato, «libretto polemico» (così lo definisce l’autore stesso) di Sergio Luzzatto, brillante storico della Rivoluzione francese e dell’Italia del Novecento, è uscito poco prima della sentenza in questione. Ma questo poco importa al lettore, dato che il testo si occupa, più che di questioni giuridiche, della dimensione profonda, storica del problema della presenza pubblica del simbolo religioso, del rapporto tragico e profondo tra le nostre esistenze quotidiane, le nostre istituzioni e la Chiesa cattolica. Con le sue parole: «Il crocifisso sul muro non è soltanto una questione di diritto, una questione di codici o di codicilli. Il crocifisso sul muro è soprattutto un problema di storia. Una storia lontana o anche lontanissima, risalente fino al Medioevo, e una storia vicina o anche vicinissima, dal primo Novecento a oggi. In Italia il crocifisso è là, davanti ai banchi dei bambini nelle scuole elementari, sopra il letto dei pazienti nelle stanze d’ospedale, dietro le sedie dei giudici nelle aule dei tribunali, perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».

La storia del crocifisso di Stato è la nostra storia peggiore, la «storia da rifiutare», conclude Luzzatto. Possiamo ben vedere che lo storico assume fin dalle prime pagine un atteggiamento trasparente: quello che avete tra le mani non è un libro di distaccata analisi storica, ma un libro che unisce il tono polemico del pamphlet al rigore della ricostruzione storica; mantiene però sempre dritta la direzione: il crocifisso sui nostri muri pubblici non è un simbolo universale, non esprime l’essenza profonda della nostra identità nazionale e non è affatto innocuo. Luzzatto ci mostra, in poche pagine che tengono assieme con sorprendente leggerezza e sapienza narrativa una matassa complessa di trame macro e microstoriche, perché è importante fare la storia di un problema presente: solo in questo modo possiamo accorgerci che il nostro presente non è condannato all’immutabilità, ma è talmente fragile da poter essere rivoltato.

Come dicevamo, le tesi di Luzzatto sono essenzialmente tre, e contrastano punto per punto la vulgata bipartisan pro-crocifisso. In primo luogo, il crocifisso non è un simbolo che unisce ma un simbolo che divide, come mostrano le sue origini risalenti ai secoli XII e XIV dell’Occidente cristiano, lo stesso periodo che vede le prime violente persecuzioni antiebraiche, da cui nascono le conseguenti attività vandaliche contro il simbolo da parte ebraica. In secondo luogo, il crocifisso non è un simbolo universale, non esprime un messaggio di pace che viene rivolto a tutti, ma parla a una parte precisa di fedeli e urla la sofferenza del Cristo, al punto che seguire il ragionamento degli «atei devoti» nostrani significherebbe insultare la sua potenza stessa e farne implicitamente un simbolo muto, quasi impotente. Infine, se è una verità banalissima che la nostra identità nazionale ha delle “radici cristiane”, è anche vero che l’identità di un paese, così come i simboli attraverso cui si esprime, è qualcosa che evolve, muta, si trasforma radicalmente con il tempo: l’identità di un paese non è un’essenza immutabile ma una trama di eventi storici in perenne mutamento. Perché infatti, domanda provocatoriamente Luzzatto, non si parla mai della presenza o dell’assenza del crocifisso dalle case degli italiani, e soltanto della sua presenza pubblica? Non sarà forse che l’enfasi sulla sua pubblicità serva a oscurare il fatto che si tratta di un simbolo sempre meno presente nelle vite reali e negli spazi che concretamente abitano gli italiani?

Tutto questo è argomentato tramite il ricorso a una cronologia e a una geografia estremamente variegate: dalla Cuneo degli anni Ottanta al Medioevo di Francesco d’Assisi, dal Gargano di Padre Pio all’esposizione della Sindone l’anno scorso a Torino, dal Cristo parlante e amichevole di Guareschi alla marcia su Roma descritta da Curzio Malaparte. La difesa del crocifisso delinea inoltre inedite e bizzarre convergenze, scenari surreali in cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la grande scrittrice Natalia Ginzburg, Marco Travaglio, Mariastella Gelmini e il cardinale Bertone si sono trovati, negli ultimi 25 anni circa, dalla stessa parte della barricata. Tra le diverse storie che si intrecciano e si agglomerano nel nostro presente storico, ne scelgo soltanto una, quella degli anni che vanno dal 1922 al 1926, gli anni della nascita del fascismo, o meglio del clerico-fascismo, perché ci consente di gettare, al di là di tutti i recenti e pietosi revisionismi, un ponte verso quel passato, un ponte tanto più spaventoso quanto molto trafficato ai nostri giorni. Il clerico-fascismo, categoria ambigua ma pregnante trattata da Luzzatto in maniera più articolata nel suo splendido libro su Padre Pio del 2007, sembra riagguantarci – beninteso, in forme nuove: la storia non si ripete – e prenderci alle spalle proprio quando credevamo che fosse diventata una mera materia scolastica.

Dunque, è proprio vero che il crocifisso è sempre stato appeso nelle nostre scuole, caserme, ospedali, tribunali? No. Nonostante una legge Casati del 1859 stabilisse l’obbligo di esporre il crocifisso e il ritratto del re in tutte le scuole elementari del regno, nell’Italia laica e post-unitaria, nata non senza la Chiesa ma contro la Chiesa, la direttiva era ampiamente disattesa, tanto che il 22 novembre 1922, neanche un mese dopo la marcia su Roma, il governo Mussolini, per mano del sottosegretario all’istruzione, emanava una circolare in cui lamentava questo stato di cose e prescriveva di rimettere subito i simboli al loro posto. Ben presto, tra il ’23 e il ’26, la direttiva venne estesa a tutti gli edifici pubblici, a tutte le scuole, di ogni ordine e grado, e infine ai tribunali. Dietro questa serie di decreti stava, e Luzzatto ricorda alcune eloquenti biografie, una pattuglia di gerarchi del Fascio con le mani ancora sporche di sangue.

Anche se sono da prendere con le molle, ricordiamoci delle parole con cui Malaparte descriveva la marcia su Roma: si trattava della sospirata e tanto attesa «vittoria dell’Italia cattolica, terragna, antimoderna, anticivile» contro quell’altra «Italia laica, cittadina, esterofila e viziosa». Ricorda qualcosa?

Titolo: Il crocifisso di Stato
Autore: Sergio Luzzatto
Editore: Einaudi
Dati: 2011, 100 pp., 10,00 €

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