Chi mi ama mi segua

Per chi, come me, è nato intorno alla fine degli anni 70, il termine «serie tv» potrebbe essere associato a quelli che, all’epoca, chiamavamo «telefilm», o, in altre parole, a prodotti audiovisivi televisivi dalle scarse pretese dalla discutibile qualità. I telefilm, infatti, erano caratterizzati da contenuti ripetitivi, trame improbabili, personaggi stereotipati. Questo identikit poco lusinghiero, però, non rappresentava un fallimento o un obiettivo mancato: il prodotto era dichiaratamente scadente e veniva considerato un semplice riempitivo destinato, per lo più, alla fascia pomeridiana e rivolto a un pubblico di bambini o pre-adolescenti.
Se queste parole suscitano lo sdegno di qualche nostalgico del coltellino svizzero di MacGyver o del baffo folto di Magnum P.I., la spiegazione risiede solo nella natura dell’animo umano: il ricordo è sempre un po’ più rosa. Chi provasse a riguardare oggi qualche puntata di quegli stessi telefilm che riempivano i suoi pomeriggi di ragazzino, li troverebbe, con ogni probabilità, insopportabilmente lenti e prevedibili.
I telefilm degli anni’80, infatti, sono solo lontani parenti di quei prodotti, ribattezzati «serie tv», che contano oggi numerosissimi fan e appassionati cultori. La serialità si è evoluta, raffinata, differenziata e anche il pubblico non è più lo stesso. Ad acquistare le lussuose edizioni in cofanetto delle serie tv, infatti, non sono certo bambini annoiati ma giovani adulti piuttosto esigenti.

Se provo a rovistare nella mia memoria in cerca della prima serie tv che abbia cambiato la concezione del prodotto, tanto nei professionisti del settore quanto nel pubblico, mi viene in mente Beverly Hills 90210. Rispetto ai telefilm, infatti, la durata del formato si dilata e, soprattutto, cambia il posizionamento nel palinsesto televisivo: le avventure dei due gemelli Brenda e Brendon e dei loro ricchissimi e phonatissimi amici, sbarcano in prima serata.

Beverly HillsMelrose Place – destinato a un pubblico leggermente più adulto e responsabile di illusorie speranze sui rapporti di buon vicinato – però, nonostante i cambiamenti introdotti, sono ancora molto vicini ai loro predecessori. I personaggi sono delineati con superficialità e l’interesse del pubblico è mantenuto alto, come nelle soap-opera, grazie alle svolte sempre più imprevedibili (per non dire improbabili o inverosimili) della trama, oppure col vecchio stratagemma, ancora oggi utilizzato frequentemente, della «roulette delle coppie»: tempo due stagioni e tutti i personaggi hanno avuto implicazioni romantiche e sessuali con ogni altro personaggio del sesso opposto.
Eppure, persino con un prodotto tutto sommato mediocre, il lungimirante produttore, Aaron Spelling, ha incrementato la sua fama e fortuna, dimostrando, sostanzialmente, che la serialità paga anche in prima serata e che il pubblico è pronto a lasciarsi fidelizzare.
Escludendo prodotti atipici come la serie Alfred Hitchcock presenta o le indagini del tenente Colombo, per trovare la prima serie tv che ha scelto di investire sulla qualità dobbiamo, a mio avviso, arrivare ad E.R. La serie racconta le vicende del personale medico e paramedico del pronto soccorso universitario di un ospedale di Chicago. E.R., lo si intuisce sin dalle prime sequenze, è lontano anni luce non solo dai telefilm pomeridiani, ma anche da Beverly Hills 90210.
Non a caso il suo ideatore è Michael Crichton, professionista affermato sia nel campo editoriale che in quello cinematografico, e la produzione è affidata alla Amblin di Steven Spielberg. Per Spielberg non si tratta nemmeno della prima incursione nel mondo dell’audiovisivo seriale, dal momento che è proprio un giovanissimo Steven Spielberg a firmare la regia dell’episodio pilota del Tenente Colombo.

Ambientare una serie tv in un pronto soccorso, permette agli sceneggiatori di sviluppare la storia su due piani che potremmo definire verticale e orizzontale. In ogni singola puntata, infatti, ci sono dei nuovi pazienti che vengono visitati, curati e dimessi mettendo alla prova la professionalità e l’umanità dei medici e di tutto il personale del pronto soccorso (sviluppo verticale). Ma, da una puntata all’altra, lo spettatore segue anche l’evolversi delle vite private dei protagonisti e il rapporto che instaurano tra di loro all’interno e all’esterno del posto di lavoro (sviluppo orizzontale). La formula rivela subito la sua efficacia e, in breve tempo, viene applicata a uffici legali, commissariati di polizia, squadre investigative speciali ecc…

Ma E.R. non deve la sua fortuna solo alla scelta strategica dell’ambientazione. E.R. è scritto, girato e recitato con la stessa cura e professionalità che vengono dedicate ai prodotti cinematografici. Proprio dal cast di E.R. proviene il primo divo «seriale» superpagato che, raggiunto un eccezionale indice di gradimento presso il pubblico televisivo, lascia la serie per dedicarsi a una ancor più fortunata carriera cinematografica. Stiamo parlando, ovviamente, di George Clooney che, per sua stessa ammissione, senza E.R., farebbe ancora provini ad Hollywood per qualche ruolo di secondo piano. Come dire: “no E.R., no party”.
Dopo l’esito dell’esperimento di Crichton, più di qualcuno nelle società di produzione  inizia, probabilmente, a pensare che le serie di qualità, pur presentando alti costi di realizzazione, possano rappresentare, nel lungo periodo, un investimento redditizio. Autori e registi si fanno più arditi e presentano al pubblico personaggi  e storie sempre più complessi, sperimentando persino innovazioni tecnologiche. La crudezza e l’iper realismo di CSI, ad esempio, si sono rivelati un altro imprevedibile successo che ha fortemente condizionato tutte le serie successive dello stesso genere.  Anche William Petersen, interpretando Gil Grissom, ha riscosso un cachet che nulla ha da invidiare a quello dei suoi colleghi del grande schermo.

Dopo la risposta incoraggiante del pubblico televisivo, cominciano ad affermarsi le prime star dell’ideazione di serie televisive, che, almeno gli appassionati e gli addetti ai lavori, venerano e seguono. Dopo Kevin Williamson – fortunato creatore della serie Dawson’s Creek –  è la volta di J.J. Abrams, meglio noto come “l’uomo dal tocco d’oro”. Abrams – che, esattamente come Williamson, proviene dall’ambiente cinematografico – è riuscito, negli anni, a far approvare proposte che devono aver fatto rizzare i capelli in testa al consiglio di amministrazione, ma che, dati di ascolto alla mano, si sono rivelate vincenti: Alias, Fringe, e, soprattutto, Lost.

Fino a dieci, quindici anni fa, l’imperativo categorico dei prodotti audiovisivi televisivi era «ridondanza». Questi programmi, infatti, erano pensati per poter essere fruiti mentre gli spettatori facevano «altro»: mentre cucinavano, mentre mangiavano, mentre lavavano i piatti o stiravano le camicie. Le informazioni, di conseguenza, dovevano essere poche, ripetute e ben intelligibili! Le situazioni rappresentate, inoltre, dovevano essere sufficientemente chiare da permettere allo spettatore di «agganciarsi» alla serie in qualunque momento senza sentirsi escluso.
Alla luce di queste considerazioni, appare ancor più strabiliante il successo di un prodotto come Lost, caratterizzato da dialoghi criptici e da una trama quasi misterica. Stravolgendo, quindi, alcune caratteristiche essenziali dei prodotti televisivi, in Lost ogni dialogo può rivelarsi cruciale per la comprensione del testo. L’impossibilità di seguire la trasmissione distrattamente non ha impedito a Lost di diventare un successo internazionale, certo aiutato dall’imponente battage pubblicitario che lo ha accompagnato.
Sulla stessa strada si erano mossi, un paio di anni prima, i creatori della serie 24 che, senza sfiorare la fortuna di Lost, è arrivata con successo all’ottava stagione. La peculiarità di 24 è quella di svolgersi in «tempo reale»: a un minuto trascorso per il pubblico corrisponde un minuto trascorso per i personaggi. Considerando che il suo protagonista, l’indistruttibile Jack Bauer (egregiamente interpretato da Kiefer Sutherland), ha, solitamente, circa 24 ore per portare a termine una o più missioni che comprendono, in media, sventare una minaccia nucleare e salvare il Presidente degli Stati Uniti d’America, ogni minuto diventa preziosissimo e carico di informazioni. La serie, inoltre, ha il merito di aver portato, già nel 2001, l’immagine di un Presidente degli USA nero nella case degli americani. Il budget di 24 fa invidia a qualunque super produzione hollywoodiana e non si risparmia riprese in esterno, riprese aeree, conflitti a fuoco, esplosioni, sfoggio della più sofisticata tecnologia e inseguimenti al cardiopalma.
Al di là delle preferenze individuali e del valore oggettivo di questi prodotti, il successo di Lost e di 24 mostra, piuttosto chiaramente, che gli spettatori sono pronti a a spegnere il telefonino, aprirsi una bibita e guardare la puntata di una serie tv con la stessa attenzione con cui seguirebbero un film, esigendo, però, il rispetto di certi standard qualitativi.


Una buona serie tv realizza molto più facilmente l’ambizione implicita di numerosi film: rendere «reale» un mondo immaginario. Due ore sono poche per creare un universo finzionale vivo e pulsante e solo pochi, eccezionali, autori ne sono capaci. I film vengono consumati in fretta e, il più delle volte, lasciano poco dietro di sé. Occorre essere dei grandi artisti per realizzare un film che rimanga nel cuore e nella mente degli spettatori. Per una serie televisiva questo obiettivo sembra decisamente più raggiungibile: bastano delle buone idee e dei professionisti affidabili. Il resto lo faranno le numerose ore che il pubblico passerà in compagnia degli stessi personaggi fino a conoscerne la casa, il luogo di lavoro, il passato, le debolezze e i più reconditi pensieri. Se a volte accade di empatizzare con i personaggi di un film, a maggior ragione le serie ci portano ad affezionarci ai loro protagonisti, rendendoceli sempre più familiari, ma stando bene attenti, come in ogni rapporto di coppia riuscito, a non diventare troppo prevedibili e a non esaurire le sorprese dopo il primo anno di matrimonio.Una serie tv è un testo che si espande, potenzialmente, all’infinito (anche se, di solito, dopo le prime quattro o cinque stagioni perde inevitabilmente di freschezza), dando modo agli autori di approfondire i caratteri, di dare spazio a più personaggi, di esplorare nuove soluzioni; insomma tutto quello che il cinema non consente essendo, soprattutto, racconto sintetico.

Una serie di successo può durare per anni, dando lavoro sicuro e ben remunerato a numerosi professionisti (un paio di settimane fa si leggeva sui giornali che la chiusura della storica serie Law and Order avrebbe lasciato a casa circa ottomila dipendenti). E, in tempo di crisi mondiale, un contratto pluriennale non è qualcosa che si possa ignorare.  Il convergere degli investimenti sulle serie tv, infatti, ha suscitato negli ultimi anni una migrazione di talenti dal grande al piccolo schermo. Se fino a pochi anni fa gli attori di Hollywood guardavano ai loro colleghi televisivi con lo snobistico disprezzo che gli aristocratici riservano ai «parvenue», oggi non ci sorprende, invece, imbatterci in una serie che abbia per protagonista un attore pluripremiato come Tim Roth (Lie to me) o Harvey Kietel (Life on Mars) o in una serie che sia prodotta dal premio oscar Ron Howard (Parenthood) o dal premio oscar Tom Hanks (Band of Brothers)

Se è abbastanza comprensibile cosa abbia spinto alcuni professionisti di Hollywood a trasferirsi nei più ampi e sicuri lidi della serie tv, non è, forse, altrettanto chiaro cosa spinga gli spettatori a fruire voracemente questi prodotti audiovisivi sempre più complessi e raffinati. Sicuramente un ruolo determinante lo ha giocato la diffusione delle connessioni a banda larga, grazie a cui, dai siti di hosting video o dagli stessi siti ufficiali dei network, è possibile visionare integralmente le puntate delle serie tv: quando vuoi, dove vuoi e con tutte le pause che vuoi. Probabilmente influisce anche il formato agile. Chi, tornando a casa la sera, è troppo stanco per vedere un intero film  è magari disposto a vedere la puntata di una serie tv: 45 minuti di relax e poi a letto.

Ma se cerco un motivo meno razionale per il successo che questo tipo di prodotti riscuote in tutto il mondo occidentale, mi torna in mente il ricordo di una scena familiare di molti anni fa: mia nonna segue con partecipazione una puntata di Beautiful e mio nonno, fingendo di passare per la cucina casualmente (le telenovelas sono pur sempre una cosa «da donna» e mio nonno doveva proteggere la sua dignità virile) si ferma per inveire contro i cattivi di turno o condanna aspramente i costumi sessuali di qualche personaggio femminile. I miei nonni, troppo vecchi per avere una vita sociale intensa, si rivolgevano ai personaggi delle soap opera come se fossero persone reali e potessero sentirli.
Credo che sia questa, sotto sotto, la grande magia della serialità. Dopo una giornata soffocata dal lavoro, dai doveri e dagli impegni, seguire per 45 minuti le vicende dei nostri beniamini, genera in noi un appagamento simile a quello che ci deriva dalla chiacchierata con un amico. Anche se il rapporto è stato unidirezionale (noi abbiamo ricevuto informazioni dai nostri «amici televisivi» ma loro non sanno nulla di noi) ha comunque soddisfatto, pur se in minima parte, non solo il nostro bisogno narrativo di ascoltare una storia interessante ma anche quello affettivo di ritrovarci con persone familiari e accoglienti.

Al pari di tutti gli ambiti lavorativi che offrono successo e guadagno, la concorrenza nel mondo delle serie televisive è diventata spietata. Ogni anno vengono lanciati decine di nuovi titoli ma, come in una crudele selezione della specie, solo quelli con determinate caratteristiche sono destinati a sopravvivere. Naturalmente la prerogativa indispensabile, dal punto di vista degli amministratori e finanziatori dei network, per mantenere in vita una serie è la quantità di spettatori che riesce a conquistare. Nessun giudizio, quindi, in merito alla qualità del prodotto: a decidere sono solo i numeri. Sarebbe bello credere che le serie più curate, più originali e più interessanti sono, automaticamente, anche quelle che riscuotono maggiore successo. Ma sappiamo bene che non è così. Alcuni piccoli capolavori vivono, come splendide farfalle dal destino straziante, un’unica stagione per venire poi soppresse a favore di concorrenti che hanno avuto l’accortezza di inserire, magari, qualche ingrediente di richiamo. Forse, proprio per essere state costrette a condensare la storia in un numero finito di puntate, alcune di queste serie si rivelano racconti coinvolgenti e indimenticabili. Altre, invece, cancellate in corso d’opera dalla direzione del network, chiudono i battenti in fretta e furia improvvisando finali incoerenti e insoddisfacenti.
Quello che AtlantideZine si propone è di fornire un servizio di «scandaglio» all’interno di un’offerta ricchissima e multiforme, segnalando quelle serie che, pur essendo meritevoli di attenzione, sono rimaste al di fuori dei grandi circuiti del successo. Ne abbiamo scelte alcune – note e meno note, già soppresse o ancora in produzione – che, a nostro giudizio, meritano semplicemente di essere viste. A voi la scelta se provarle o meno, se fermarvi alla prima puntata o se divorarle tutte d’un fiato!

Buone serie a tutti.