La simbologia del presepe: il puer aeternus racconta la rinascita dell’uomo pienamente cosciente che vorremmo riscoprire in noi

Non si diventa illuminati con l’immaginarsi figure di luce, bensì col far emergere a livello conscio l’oscurità”
(Carl Jung)


Può darsi che siamo attrezzati, organizzatissimi, accessoriati. Può darsi che in casa disponiamo di telecamere a circuito chiuso per guardarci meglio, robotica e informatica in quantità e varietà, un impianto domotico d’ultima generazione per dare istruzioni al maggiordomo bionico e per finire un esclusivo scava zucchine automatico per rimpinzarci meglio nel dì di festa. Forse la tecnologia ci ha migliorato la vita, ce l’ha resa davvero più comoda e agevole, ma qualcosa si deve esser perso per strada: si è irrigidita e atrofizzata la mente e si è accentuato il tasso di inconsapevolezza esistenziale, inconsci età per dirla con Jung; la disconnessione (per usare un vocabolo ripreso da altre navigazioni) cosmica regna sovrana. Apparentemente lieti, viviamo in un tempo neanche più lineare, tantomeno progressivo, solo istantaneo; un precipitare di istante in istante in una dimensione angusta come un caffè ristretto. Funzioniamo in automatico, fuori da noi, fuori dalla storia, fuori dai cicli naturali e cosmici.

Celebriamo per imitazione o inerzia o accondiscendenza, talvolta secondo i diktat pubblicitari che scandiscono tempi e modi dei consumi, riti svuotati di senso e contenuto. Che sopraggiunge il Natale, ce lo rivelano con largo anticipo gli scaffali di supermercati carichi di panettoni e pandori, certi spot e via dicendo. Eppure una memoria assoluta e primordiale esiste e resiste in noi, a dispetto di tutto; la suggestione di un’altra realtà ci rivela a noi stessi anime nostalgiche in cerca di un posto nell’universo. Di questi tempi, quando l’inverno incombe e il buio si fa fitto,  la parabola del puer aeternus, tiene banco come fosse una storia inaudita, raccontata ora e qui per la prima volta, e torna ad incantarci. E tengono banco anche le renne, le strenne, le conifere, San Nicola, il signor Babbo Natale, il presepe, la luce e santa Lucia e tutto un corredo mitologico sempreverde. Ci siamo mai chiesti perché? C’è chi indaga nell’inconscio collettivo e sa spiegare  il perché di comportamenti antichi e sempre nuovi attingendo alle radici profonde della storia culturale e dell’etno-antropologia. Più che un libro, La simbologia del presepe è una scossa, un bagno nella consapevolezza, una preziosa occasione di conoscenza e riconoscenza verso archetipi e miti che nutrono ancora l’anima al di là delle aberrazioni, un itinerario nella psiche supportato da un sapere olistico che racchiude la storia universale calata nella storia umana e la storia umana lanciata in orbita fino agli spazi siderali.

Quel fare e strafare che ci contraddistingue nei giorni in vista del Natale, ha tutt’altro sapore se spiegato alla luce del simbolismo e della psicoanalisi junghiana. Claudio Widmann, analista junghiano e docente di Teoria del simbolismo, indaga dall’inizio alla fine del suo studio, favorendo  il risveglio del lettore da un letargo più che stagionale. Quando ci adoperiamo tanto per addobbare un albero secondo i crismi natalizi, allestire un presepe più o meno passabile o comprarlo bell’e fatto, fare incetta di regali, rifornimenti e dolciumi,  quando trasformiamo la casa in una sagra di paese per le luminarie esibite, quando agrifoglio, pungitopo e ginepro adornano le facciate delle abitazioni, ecco che, “talvolta con religiosa partecipazione, talaltra con laica, ma non meno rigorosa, osservanza”, siamo intenti a celebrare riti di rinnovamento, anzi riti solstiziali. In verità, dagli inizi di novembre alla fine di gennaio, è tutto un pullulare di riti ad accompagnare “lo spegnimento del sole, l’ibernazione della vita vegetale, la decomposizione dei frutti, il seppellimento dei semi, la preparazione della nuova nascita”. Riti in cui il tempo profano, il tempo della ressa e dell’abitudine al vivere o al sopravvivere, si azzera, per fare posto al tempo sacro, il tempo straordinario dell’eterno ritorno, oltre la storia, “simbolicamente affine a quello della creazione”, tempo in cui leggende, credenze, dogmi religiosi, celebrazioni liturgiche celebrano una nuova creazione. Tutto rinasce e ricomincia. Widman racconta il culto di Mitra, dio solare celebrato nelle grotte, che arrivò a Roma, piacque e fu tramutato in culto del Sol Invictus. Il 25 dicembre si celebrava il natale del dio Sol Invictus.  Il cristianesimo altro non fece che travasare il “mitologema del figlio della luce (o d’oro, comunque divino), nato ai piedi di un albero, nel racconto che più gli si confaceva. Prima di Cristo c’erano stati Mithra, Mercurio, Buddha, Meshia: tutti nati ai piedi di alberi, portatori di luce nel buio del mondo. In questa cornice di ritualità solstiziale, si inserisce il presepe.

Widmann tratteggia la storia della rappresentazione della nascita del puer aeternus. La più antica testimonianza di iconografia presepiale si trova a Roma presso le catacombe di Priscilla e risale al 240 d.C. circa. La storia è fitta e documentata, ma il colpo di genio lo ebbe Francesco che nel 1223, rientrato dalla Palestina e ossessionato dall’idea di rifare Bethlehem a Greccio fece realizzare un autentico presepe vivente, “anche se mancava chi interpretasse la sacra famiglia e i magi”.

Il 24 dicembre 1223 è ritenuta la data di nascita ufficiale del presepe. Da quel momento è tutto un pullulare di creazioni. Certo “la ricostruzione della Natività non è filologicamente rispettosa dell’ortodossia dottrinale (della grotta non parlano i Vangeli canonici, ma quelli apocrifi), ma segue l’immaginazione popolare e dà forma alla fantasia collettiva”. Widmann ricostruisce la storia del presepe nel tempo e nello spazio e nei capitoli del libro si sofferma di volta in volta su un aspetto particolare, personaggio o scene del grande insieme: la taverna, la grotta, l’asino e il bue, il vecchio e la vergine, il puer aeternus, i pastori, i re magi, l’angelo e la stella.  Ora, oltre il rito solstiziale, oltre l’osmosi tra conscio e inconscio, ordine e caos, il presepe ci riguarda e ci affascina perché è soprattutto la rappresentazione di un itinerario psichico, di un processo psichico comune ad ogni uomo. Se si accoglie una lettura simbolica, il tema della nascita divina non è un evento reale, ma archetipico. E il presepe non è rappresentazione di un evento storico, ma la ripresentazione di un evento psichico. “Narrando la vicenda esemplare della nascita divina, il presepe rappresenta e ri-presenta (rende possibile nel presente) un tema archetipico centrale: quello della nascita della coscienza, attorno al quale si coagula la nascita e la formazione dell’individualità. Simbolicamente parlando il presepe racconta il momento nascente del processo d’individuazione”. Processo d’individuazione portato alla luce dell’elaborazione concettuale da Jung.

Certo il presepe è anche specchio del tempo e della cultura che lo genera, è plasmato dalla psiche collettiva oltre che da un singolo artigiano, diviene, si trasforma, non è mai identico a sé stesso. Crea una strana alchimia: scaturisce  da un processo inconscio che dà forma alla sua rappresentazione. Poi diventa oggetto di contemplazione in cui lo spettatore si identifica. Tra proiezioni e identificazioni, il presepe si eternizza, rifacendosi altro da sé.  A ciascuno la sua funzione, ad ogni cosa il suo motivo d’essere: la stalla, o la grotta in uno scenario tipicamente notturno, l’ambientazione atemporale, qualche volta sullo sfondo il palazzo di Erode o rovine; la locanda, il diversorio. Il cuore della scena comprende Maria, Giuseppe, Gesù, il bue e l’asino. I magi sono altri personaggi essenziali, già presenti nelle raffigurazioni paleocristiane. Altrettanto indispensabili gli angeli, in numero variabile; immancabile anche il gruppo folto e variopinto dei pastori, quindi figure dedite ad occupazioni quotidiane e donne.

Figure  sinistre e infernali sono o possono essere avventori della taverna, clienti del mercato, soldati di re Erode, zingari, becchini, animali quali rettili e insetti. La grotta è l’ipogeo psichico, il luogo dell’esplorazione delle profondità là dove avviene la nascita dell’individuo e ogni ciclo di rinnovamento. Al contrario la taverna o la locanda sono luoghi di ottundimento, riduzione dell’essere a pura fisicità istintuale. La stalla parla della precarietà di ogni costruzione dell’Io. Nei miti di ogni cultura spesso gli animali prendono parte alle nascite archetipiche. L’asino e il bue stanno a rappresentare la componente biologica, istintuale e corporea, nonché la parte animalesca della psiche riabilitata ed esaltata: senza di essa non vi è né può esservi alcuna individuazione. I pastori sono i molteplici aspetti della psiche, funzioni talvolta contrastanti o scisse. C’è il sonno innocente del pastorello e c’è il sonno volgare che ben rappresenta l’ottenebramento della coscienza o la banalità del quotidiano. I pastori con offerte di frutta o di uova rappresentano la finalità di ogni esperienza di rinascita: l’evoluzione dell’anima. I magi, invece, personificano gli aspetti più regali della psiche. Gli angeli sono intermediari tra divino e umano, ma anche tra conscio e inconscio, tra sé ed io, sono “qualità archetipiche che emergono dal sé e improntano la materia”.

Al centro padre e madre, maschile e femminile, anziano e fanciulla: antinomie archetipiche che presiedono al dispiegarsi dell’energia psichica. Il padre è vecchio ed è marginale: non c’è atto di nascita dell’individualità se il maschile spadroneggia. Al centro del centro il puer. Ma chi è costui? Come? Possibile che non lo si riconosca?  Eppure è in noi. “Il neonato è archetipo universale di ogni nascita, fisica e psichica, letterale e simbolica, ed è immagine esemplare di ogni individualità che nasce o che si rinnova”. Nel tempo più buio dell’anno, dall’antro più oscuro della terra scaturisce la luce emanata dal puer, nuovo sole invitto: archetipo della nascita psicologica più che di quella biologica, “immagine del processo interiore attraverso il quale si forma e continuamente si riforma l’identità individuale”. Il presepe è emanazione di senso: ad ogni istante della vita, qualcosa preme dal buio per venire alla luce, una parte oscura aspetta di essere accettata dalla coscienza, la personalità chiede di svilupparsi ed arrivare al proprio zenit. Diventare individui richiede  uno sforzo continuo, la fedeltà alla propria legge interiore, immettersi nella ciclicità dell’impresa, l’interazione della coscienza con le sorgenti inconsce, la sconfitta delle paure e delle continue resistenze al cambiamento. “La nascita simbolizzata nel presepe è la nascita continua di nuovi modi d’esistere, di nuove forme d’essere se stessi.. Individuazione è creatio continua”. Ora dunque al lavoro! Vige la responsabilità individuale nella scelta del paradigma di vita. Ci si può individuare anche scavando le zucchine. Si può nascere a sé stessi in ogni istante. Orsù, tutti a preparare l’insalata di rinforzo con ardore e forza psichica.

Titolo: La simbologia del presepe
Autore: Claudio Widmann
Editore: Ma. Gi.
Dati: 2004, pp 404, €35,00

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