Liu Bolin. L’illusione è realtà

Verrebbe voglia di scomodare Platone e Aristotele e interrogarli, davanti a queste foto, sul rapporto tra mimesis e arte; verrebbe voglia di tirar giù dal palcoscenico shakespeariano Amleto e chiedergli “essere o non essere?”; verrebbe voglia di strappare dalle pagine di Oscar Wilde Mr. Dorian Gray per domandare se intendeva questo quando diceva che rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte. Perché tante sono le suggestioni che affiorano di fronte alle opere di Liu Bolin, e non casualmente ricorro alla parola “opere”: non si tratta infatti di semplici foto, ma di un lavoro stratificato, che parte dal body painting, per trasformarsi in scultura e immortalarsi infine in uno scatto.

Il signor Bolin sceglie un posto, non uno a caso ma un luogo-simbolo, e rimane lì, immobile per ore, mentre il pennello di un paziente pittore gli dipinge le scarpe, la divisa maoista anni ’60, poi su fino al viso e ai capelli; deve pazientare il signor Bolin nel restare anche sette ore fermo in piedi, deve pazientare il pittore che aggiusta il colore ad ogni minimo cambio di luce. Osservato da vicino sono pennellate di colore spalmato in modo quasi grossolano su di un corpo che pare sempre più una statua, ma se si fanno due passi indietro, poi altri due e altri due ancora, il signor Bolin non è più un uomo, è un camaleonte, perfettamente mimetizzatosi in un tutt’uno con l’ambiente. E solo allora il fotografo scatta. E l’opera è completa.

Illusionista di sparizioni, la sua assenza si può toccare e rivendica più che mai la sua presenza. Perché, utilizzando le sue stesse parole, “è ciò che non  si vede nella foto a raccontare la storia”; è quella sagoma appena accennata, trasparente sullo sfondo, nascosta da abili giochi prospettici dipinti, che dà un significato al tutto. Se l’arte è inganno, è un inganno che porta alla conoscenza. Nella serie “Hiding in Italy”, i tratti somatici cinesi di Liu Bolin e la sua divisa maoista si fondono nel sipario del Teatro alla Scala di Milano o sprofondano in una delle sue poltrone, diventano evanescenti nei canali di Venezia, o si nascondono nei gradini dell’Arena di Verona; Cina e Italia, da un parte un’urbanizzazione progressiva che cancella ogni memoria nel paesaggio, dall’altra un patrimonio artistico che conserva la storia. L’uomo è anche l’ambiente in cui si trova, non ne deve essere inghiottito ma al contempo non lo deve distruggere; l’uomo non deve scomparire nel paesaggio, ma il paesaggio deve rappresentarne l’identità.

Un’arte che è anche una forma di denuncia, e allora meno efficace sarebbe stata una semplice manipolazione digitale con Photoshop, più faticosa certo, ma di gran lunga più viva questa performance artistica. Non conta l’effetto fotografico, è l’atto in sé a creare l’opera, e lo realizzano il soggetto, il pittore e il fotografo, l’id ea e le braccia che hanno saputo materializzare una riflessione, a occhi chiusi come fosse una meditazione, sul passato distrutto e conservato. Un uomo invisibile, ma contrariamente a quello del romanzo di Herbert George Wells, sa partire dalla sua trasparenza per affermarsi credibilmente come essere umano.
In ogni caso prestate attenzione, il signor Bolin potrebbe essere intorno a voi da qualche parte.



Liu Bolin
Hiding in Italy
Spazio Forma, Milano
21 Ottobre – 14 Novembre 2010

www.formafoto.it

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