Dieci anni sono tanti!

Scibona, La fine

Il primo consiglio è il seguente: leggete La fine, prima di qualsiasi cosa scritta su La fine. Dico questo solo perché così ho fatto io – tranne che per una sbirciatina, infausta, alla quarta di copertina – e perché mi piacerebbe condividere l’esperienza di vedere invalidata, senza appello, l’opinione maturata sul romanzo, dopo aver letto la critica applaudire e urlare al capolavoro. Se non avessi consultato nulla, sia prima che dopo, oggi mi ritroverei a scrivere di una bella opera prima, principale nota positiva, pubblicata dalla giovane casa editrice 66thand2nd, altra nota positiva, di uno scrittore italoamericano collocato dal New Yorker tra i giovani migliori scrittori emergenti americani.

Salvatore Scibona, nato negli Stati Uniti e con evidenti legami familiari con l’Italia del Meridione, racconta le vite di immigrati italiani nella cittadina di Cleveland, partendo da una data precisa, il 15 agosto del 1953, festa dell’Assunzione, e da un luogo preciso, Elephant Park, giorno e luogo in cui si concentra il nascente crogiolo americano, percorso da tensioni razziali, e da cui si dipana, tra salti temporali e continui rimandi, la complessa storia dei protagonisti, da Catania fino all’Ohio, dagli inizi del Novecento fino alla guerra di Corea. Si narra di Rocco LaGrassa, panettiere stacanovista, poco avvezzo alla socialità – “Chi era l’uomo che era diventato quando era emerso dalla solitudine per entrare nella compagnia altrui?” – , che alla morte del figlio in guerra decide di intraprendere un viaggio alla ricerca della moglie che l’aveva abbandonato; si narra di Costanza Marini, dedita a pratiche mediche illegali, che dialoga col defunto marito; della sarta Carmelina Montanero, detta Lina, e di suo marito Enzo; di un enigmatico gioielliere collezionista di lettere; del difficile ragazzo Ciccio, iniziato agli studi filosofici da un padre gesuita. Tutti personaggi sradicati dalle proprie origini e scaraventati in un paese che, tra la depressione e la promessa del sogno americano, non sembra in grado di offrire alcun futuro, uomini e donne in cerca di riscatto. Personaggi in cerca del senso della propria esistenza, le cui vite si intrecciano drammaticamente.

Un romanzo corale, complesso a tal punto da appesantire la lettura e da rendere difficile riassumere l’intreccio; denso, ambizioso, soprattutto per essere un’opera prima. Potrei affermare di aver avuto tra le mani un gran bel libro. Se non fossi assalito da una serie di dubbi. E a darmi lo spunto è proprio l’oracolo New Yorker che con il suo elenco (non metto in dubbio la validità degli autori, che per la maggior parte non conosco, e tra i quali compare anche il bravissimo Jonathan Safran Foer, e in passato autori come Chabon, Eugenides, Wallace) ha aperto la strada alla critica positiva a tutti i costi, alla pratica della riverenza letteraria, tranne rare e deboli eccezioni. Il suo impatto mediatico è tale che la fondatezza della Lista deve essere assunta come verità, per cui è sufficiente, come accade in quasi tutte le occasioni, citare il New Yorker per dare alla recensione la prova insindacabile della sua bontà. E in questo tranello cade anche la critica italiana su cui pesa l’aggravante di uno sciovinismo ingiustificato, essendo Scibona americano a tutti gli effetti e vantando solo una lontana parentela italiana – per non parlare del fatto, ma questa è colpa degli americani, che nessuno può parlare meglio di immigrazione di uno scrittore di origini italiane -.

Ma è sul piano linguistico che si manifesta il secondo dubbio. Se da un lato alla complessità della struttura fa da spalla una scrittura ricercata – alcuni parlano di virtuosismi -, dall’altro in alcuni momenti sembra fin troppo attenta e meditata; si ha come l’impressione che sia tutto un esercizio da scuola di scrittura, con una spolverata di autocompiacimento. Del resto ci sono voluti ben dieci anni per scrivere il romanzo, e dieci anni sono tanti, se poi ci si ritrova a leggere che una “pietra si era accomodata quasi orgogliosamente sul cruscotto”, un “motore provava rimorso per le ostentazioni giovanili”, o se si incontrano “vanagloriose creature transeunti”.

Ma la perplessità raggiunge l’apice quando si ha l’impressione, e questa è una scelta voluta a quanto pare, che i pensieri dei personaggi non siano altro che i pensieri dell’autore, e che la norma, per tutti, è disquisire con un linguaggio che poco si confà alla realtà del periodo e dell’ambiente descritto, e lasciarsi andare a inaspettate riflessioni pseudo-filosofiche.

Su tutto, infine, incombe una serie di paragoni altisonanti: Faulkner, Virginia Woolf, Bellow, Don DeLillo McCarthy, Flannery O’Connor, e qualche altro che sto dimenticando (In realtà alcuni di questi nomi sono citati da Scibona, in diverse interviste, come fonti di ispirazione, e per una legge di cui si fa fatica a capire la logica, questo autorizza chiunque ad accomunare, ora e per sempre, il nome di Scibona ai suoi illustri maestri. In altri casi il paragone è opera diretta dei recensori, come nel caso del The Guardian che avvalora l’accostamento a Graham Greene). Non roba da poco. Così, tanto per ribadire l’invito iniziale, prego tutti coloro che amano e leggono Flannery O’Connor, Faulkner e compagnia, di leggere La fine; perché se è vero tutto ciò che si dice, ci sarà un nuovo compagno con cui trascorrere le serate.

Leggete, dunque. Anche se forse, alla fine, rimarrete col dubbio se il 15 agosto 1953 quel gruppo di persone che raggiunsero la banda dietro la traballante Vergine, quel gruppo di uomini e donne, “più o meno sette”, fossero realmente otto o sei.

Titolo: La fine
Autore: Salvatore Scibona
Traduttore: B. Ambrosi
Editore: 66th and 2nd
Dati: 2011, 389 pp., 20,00 €

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