Andiamocene via

Sopravvalutato.

Questa la parola che spesso viene accostata al nome del regista Sam Mendes, dopo il successo di American Beauty.
Che piaccia o no, tuttavia, Sam Mendes rimane uno dei cantori dell’America, con le sue crisi, le sue ipocrisie, i suoi sogni. I sogni spezzati: quelli dei marines nella guerra del Golfo (Jarhead), quelli di una donna castrata nelle sue aspirazioni (Revolutionary Road), quelli della perfetta famiglia borghese (American Beauty appunto).

In American Life, adattamento italiano di “Away we go”, Mendes racconta la crisi ai tempi nostri. Quella dei nuovi giovani (ultratrentenni) precari, senza punti di riferimento, che vivono dignitosamente in condizioni poco dignitose, ma non se ne crucciano. Non si tratta di povertà e neppure di scelta di vita. Siamo di fronte a un nuovo fenomeno: adulti che lasciano che gli eventi scelgano per loro. Così Burt e Verona vivono in una casa che sembra un garage ingombro di cianfrusaglie. Non sono indigenti, solo vivono alla giornata, pigramente. Hanno lavori che possono svolgere in qualsiasi posto, cosa che contribuisce a un certo disordine nei ritmi di vita. Questo fino al giorno in cui scoprono di aspettare un bambino. A quel punto, la totale mancanza di un programma inizia a sembrare un ostacolo insormontabile. Ogni piccola cosa, come la finestra rotta sostituita da un cartone da tempo indefinito, sembra urlare al fallimento, all’incapacità di costruire qualcosa di duraturo. Un monito contro il presunto malessere di un’intera generazione.
La messa in discussione di tutto, la mancanza di legami e la voglia di predisporre un nido accogliente per chi nascerà porta la coppia ad affrontare un viaggio alla ricerca del luogo perfetto, spinti dall’ansia di prestazione più che dallo spirito d’avventura.
Le tappe del viaggio sono state decise solo ed esclusivamente in base alle conoscenze che hanno in loco: ex colleghi, compagni di università, vecchi amici di famiglia. Ne deriva un affresco desolante delle relazioni marito/moglie e genitori/figli.
Quello che resta è una sensazione di solitudine della famiglia, che, abbandonata a se stessa, si crea una sorta di microcosmo autarchico, sotto il cui peso resta schiacciata. Non esiste l’unione perfetta, solo tante solitudini che annaspando si ritrovano.
Forse l’intento di Sam Mendes era semplicemente quello di raccontare una tenera storia d’amore pulita: senza sesso estremo, senza tradimenti, senza complicazioni. Una normale coppia che affronta gli indefiniti problemi dell’America contemporanea, fatti di inconcludenza, incapacità di focalizzare, dispersione. Per farlo però, tratteggia i suoi protagonisti più che altro tramite caratterizzazioni negative: Burt e Verona non sono isterici e nevrotici, non millantano un artificiale benessere mentale, non corrono dietro pseudo-filosofie alternative e stramboidi.
Ma chi sono Burt e Verona? Qui la trama si sfilaccia e il regista tenta invano di costruire un’identità a due eroi dei giorni nostri, ricavandone solo qualche sorriso e un senso di ineluttabilità nella perdita dei legami.
Ci dice solo che Burt ha due genitori fanatici, egoisti e menefreghisti che lo abbandonano nel momento del bisogno. Verona ha solo una sorella cui è molto affezionata, ma che fa una comparsa del tutto gratuita e strumentale allo svolgimento della storia. Entrambi hanno conoscenze sparse per gli States. Ma nessuna vera relazione al di fuori di loro stessi.
E alla fine, poesia a parte, decidono che possono “bastarsi” a vicenda.

American Life (Away We Go)
di Sam Mendes
Produzione: USA/GB, 2009
Genere: Commedia/Drammatico
Durata: 98′
Sceneggiatura: Dave Eggers, Vendela Vida
Fotografia: Ellen Kuras
Montaggio: Sarah Flack
Scenografia: Lydia Marks
Colonna Sonora: Alexi Murdoch

nelle sale dal 17 dicembre 2010

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