Noi siamo abitatori d’un pianeta errante

“Rammento ad esempio un ritorno di Bury, che si uccise in seguito nelle Corbières. Questo vecchio pilota era appena venuto a sedersi in mezzo a noi e mangiava in silenzio, pesante, con le spalle ancora oppresse dalla fatica. Era la sera d’una di quelle giornatacce in cui, da un capo all’altro della linea, il cielo è marcio, e tutti i monti sembrano al pilota rollare nel brago, come quei cannoni che sui velieri d’un tempo, rotte le rizze solcavano i ponti da una banda all’altra. Io guardai Bury, deglutii a vuoto e mi avventurai a chiedergli se il volo era stato molto duro. Bury, chino sul piatto con la fronte aggrottata, non mi udiva. Col cattivo tempo, a bordo dei velivoli scoperti, ci si sporgeva dal parabrezza per vedere meglio; e a lungo poi, le sberle del vento ti fischiavano nelle orecchie. Alla fine Bury rialzò il capo, parve capire, ricordare e sbottò in una risata squillante. Mi stupì quel riso, in lui che rideva di rado, quel riso che gli illuminava la stanchezza. Egli non diede altre spiegazioni sulla sua vittoria, chinò il capo e riprese a masticare in silenzio. Ma nel grigiore del ristorante, ove venivano a rifocillarsi gli impiegatucci dopo le umili fatiche della giornata, quel compagno dalle spalle grevi mi parve di una strana nobiltà; sotto la scorza ruvida si intravedeva l’angelo che ha sconfitto il drago”.

“Ma che strana lezione di geografia mi fu impartita! Guillaumet non stava insegnandomi la Spagna; me ne faceva un’amica. Non mi parlava né d’idrografia, né di popolazioni, né di bestiame. Non mi parlava di Cadice, bensì di tre aranci che, presso Cadice, sono in bordo a un campo: “Diffidane, segnateli sulla carta…” E i tre aranci vi occupavano ormai più posto della Sierra Nevada. Non mi parlava di Lorca, ma di una semplice fattoria nei pressi di Lorca. Di una fattoria viva. Del fattore. Di sua moglie. E perduti nello spazio, a millecinquecento kilometri da noi, quei due assumevano un’importanza smisurata. In buona posizione sulla pendice del loro monte, simili ai guardiani d’un faro, erano pronti, sotto le loro stelle, a recar soccorso agli uomini”.

“Meditai sulla mia condizione di uomo smarrito nel deserto e in pericolo, nudo tra sabbie e stelle, con troppo silenzio frapposto tra me e i poli della mia vita. Sapevo infatti che per raggiungerli avrei impiegato giorni, settimane, mesi, se un aereo non mi avesse ritrovato o se domani non m’avessero rintracciato i mauri. Qui, non possedevo più nulla al mondo. Non ero altro che un mortale sperso tra la sabbia e le stelle, conscio dell’unica dolcezza di respirare…
Eppure scoprii di essere colmo di sogni.
Vennero a me senza rumore, come acqua di fonte, e sulle prime non capii quale fosse la dolcezza che m’invadeva. Non si trattò affatto di voci, d’immagini, ma del sentimento d’una presenza, d’una amicizia vicinissima, già quasi indovinata. Poi compresi e, a occhi chiusi, mi abbandonai agli incantesimi della memoria.
Esistevano, da qualche parte, un parco carico di abeti neri e di tigli, e una vecchia casa che amavo. Poco importava che fosse distante o vicina, che non potesse dare calore alla mia carne né offrirmi ricovero, ridotta qui alla funzione di sogno: bastava che esistesse per colmare la notte con la sua presenza. Non ero più un corpo finito in secca su un lido ghiaioso: mi orientavo, ero il figlio di quella casa, mi riempivano il ricordo dei suoi odori, la frescura dei suoi vestiboli, mi riempivano le voci che un tempo l’animavano: persino il canto delle rane negli stagni, che veniva a raggiungermi qui. Avevo bisogno di quei mille punti di riferimento per riconoscere me stesso, per scoprire di quali assenze era composto il sapore di quel deserto, per trovare un senso a quel silenzio composto di mille silenzi, ove tacevano persino le rane.
No, non dimoravo più tra le sabbie e le stelle. Non ricevevo più, dallo scenario, solo un messaggio freddo. Lo stesso sapore d’eterno, che avevo creduto mi venisse da lui, scoprivo ora quale fosse la sua origine. Rivedevo i grandi armadi solenni della casa. Si schiudevano su pile di lenzuoli bianchi come la neve. la vecchia governante trotterellava come un topo dall’uno all’altro, sempre a verificare, spiegare, ripiegare, ricontare a biancheria di bucato, esclamare “Ah, Dio mio! Che sventura!” alla minima traccia di un logoramento che minacciasse l’eternità della casa, e correre subito a consumarsi gli occhi sotto una lampada per riparare la trama di quelle tovaglie d’altare, per rinforzare quelle vele da tre alberi, al servizio di non so che di più grande di lei, un Dio o una nave.
[…]
Sahara mio, Sahara mio, eccoti tutt’intero soggiogato dall’incantesimo di una filatrice di lana!”
(Antoine de Saint-Exupery, Opere – Volume primo, Terra degli uomini, Bompiani – Collana: Classici, Pagine 1120. Prefazione di Michel Autrand e Michel Quesnel, introduzione di Michel Autrand)

“Finalmente arrivammo al campo, dove ci aspettava un bell’aereo argentato. Volevo salire nella cabina dei passeggeri, ma insistette perché rimanessi vicino a lui sul seggiolino del copilota e subito chiuse le tende che separavano i due ambienti. Gli spiavo le mani, belle mani intelligenti, nervose, fini e forti allo stesso tempo. Mani che sembravano parte di un dipinto di Raffaello. Rivelavano il suo carattere. Avevo paura ma gli affidavo la mia vita. Decollammo. I muscoli gli si distesero sul viso. Volavamo al di sopra delle pianure, dell’acqua. Il mio stomaco non era contento. Mi sentivo impallidire, sospiravo profondamente.
Per fortuna il rumore dle motore soffocava i miei sospiri. L’altitudine mi tappava le orecchie, avevo voglia di sbadigliare. All’improvviso spense il motore: “Avete volato molto?”
“No, è la prima volta” dissi timidamente.
“Vi piace?” mi chiese guardandomi con aria divertita
“No. È solo strano”
Fermava la leva del cambio per parlarmi all’orecchio. Di nuovo prendeva quota, poi si fermava ancora per parlarmi. Si divertiva a spaventarci con le sue evoluzioni. Sorridevo.
Mi appoggiò le mani sulle ginocchia e mi disse, porgendomi la guancia: “Non mi volete baciare?”
“Monsieur de Saint-Exupéry, nel mio paese ci si bacia soltanto quando ci si conosce bene. In più sono vedova da pochissimo tempo. Come potrei baciarvi?”
Si morse le labbra per reprimere un sorriso.
“Baciatemi o vi annego” disse fimgendo di dirigere l’aereo sul mare.
Mordevo il fazzoletto dalla rabbia. Perché avrei dovuto baciare quell’uomo che avevo appena incontrato? Trovavo lo scherzo di pessimo gusto.
“È così che ottenete baci dalle donne?” gli chiesi. “Con me questa tattica non funziona. Ne ho abbastanza di questo volo. Atterrate, per piacere. Ho appena perso mio marito e sono triste”
“Ah! Cadiamo”
“La cosa mi lascia del tutto indifferente”
Allora mi guardò, chiuse il contatto e gemette: “Lo so, non mi baciate perché sono troppo brutto”
Vidi le lacrime che gli si formavano negli occhi per cadere sulla cravatta e il mio cuore si sciolse dalla tenerezza. Mi chinai verso di lui e lo baciai. Mi baciò a sua volta, violentemente, e rimanemmo così due o tre minuti, salivamo, scendevamo, chiudeva il contatto e lo riapriva. Tutti i passeggeri stavano male. Dal retro si sentivano i loro lamenti.
“Ma no che non siete brutto. È che siete troppo forte per me. Mi fate male. Non sono baci, i vostri: voi mi mordete, mi mangiate. Voglio atterrare, ora”
“Scusatemi, non so molto bene cosa sia una donna. Vi amo perché siete una bambina e avete paura”.
“Finirete per farmi del male. Siete un po’ pazzo”
“Lo sembro soltanto. Faccio sempre ciò che voglio, anche se mi fa male””.
(Memorie della rosa, Saint-Exupéry Consuelo de, Barbera (collana No limit), 2008, pp. 236)

“Come è morto? È morto ubriaco di ossigeno, o di carenza di ossigeno, forse di stanchezza? In fondo cosa voleva? Voleva sparire?
Il fatto è che è sparito veramente in una forma per così dire letteraria, romantica. Meglio così, che un uomo che decide di sparire o è sparito, non sia più ritrovato; diventa un fatto leggendario e diventa un mito per le generazioni future”.
(Saint-Exupéry. L’ultimo volo, Pratt Hugo, Lizard, 2004, pp. 80)

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