Bambini bonsai, profezia di un mondo allo sbando e lamento dell’infanzia perduta

Ci sono libri che hanno dalla loro il mistero. Questa caratteristica o modalità d’esistere li pone al di sopra dei cliché, gli conferisce un’indefinibilità, quasi una vaghezza, che è la sconfitta di chi cerca l’etichetta e di contro l’affermazione della vertigine d’infinito sul miserabile mondo del finito. Il mistero lo recano non certo per grazia ricevuta o per aver soggiornato a lungo sul Parnaso, o essere stati partoriti dopo una vacanza/clausura nella scuola narrativa del momento. Ma perché contengono la vita, e hanno quindi il carattere della necessità: dovevano esserci così come sono.

É il caso di Bambini Bonsai di Paolo Zanotti. Provate a immergervi in questo mondo: forse è un racconto, un romanzo; forse un diario, una prosa lirica, una previsione di un mondo non lontano o la descrizione ‘iper-realistica’ e dolorosa di ciò che accade a ognuno di noi quando è costretto a lasciare l’infanzia. Fin da subito vi troverete nel mistero che azzera ogni pretesa di collocazione in uno spazio-tempo circoscritto o in qualche loculo o categoria d’appartenenza. A proposito di loculi, la trama, si certo che c’è, ma è sbiadita e diluita nel grido dell’essere, e ha a che vedere con i cimiteri, anche. Perché qui siamo in un mondo di sopravvissuti, in una dimensione al limite, spettrale, e il narratore, Pepe, è un bambino che vive con altri umani superstiti nell’agglomerato a ridosso del Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova.

L’agglomerato, racconta Pepe, è fatto di due distinte etnie, gli uomini e le statue:  sembra che le seconde siano più numerose perché il simulacro ha avuto il sopravvento. Suo padre è  prodotto di un’alienazione, un meccano vivente; la madre una donna di grande bellezza e assenza, ha il talento di volatilizzarsi ed  “evaporare nell’aria come una nube di profumo”. Una tale zia Incarnazione, è un concentrato di memoria, e perciò una creatura destinata in altro modo a sparire. In questo mondo, si passeggia tra le tombe, i bambini sono esseri solitari e sospesi, si immergono nei secchi d’acqua per ripararsi da un sole perenne e dal caldo spietato, rivelatori forse di un disastro ambientale, circondati da un mare che acceca e intossica con riflessi ed esalazioni. Le specie animali si sono estinte, non ci sono che documentari-natura a ricordarle. Finché tutto cambia drasticamente, in una dimensione priva di gradualità, caratterizzata da scossoni e passaggi bruschi; ecco che arriva la grande stagione della pioggia, il diluvio anzi. Che è catastrofe, ma anche liberazione. Possibile libertà, per questi bambini diafani, prigionieri altrimenti di un mondo di ombre, adulti mai stati piccoli. E Pepe intraprende con altri bambini, tra cui la piccola Primavera, un viaggio d’iniziazione nei tanti riti di cui si compone il libro, il distacco da quel mondo senza collocazione.
Conoscerà Petronella, si unirà a un’altra banda, conoscerà la bambina Sofia, occhi d’albicocca che ispira l’intera narrazione: è la bambina immagine nelle scatole di latta che è la chiave di volta dell’essere bonsai, dell’essere programmata a una vita artificiale, “risvegliata” solo per venire fotografata e immolata all’apparenza, vive in una teca costretta a un’infanzia “atrofizzata”. Personifica l’essere azzerati da un potere adulto. Tenuta in teca come in tomba.

Siamo nella surrealtà o nella iper-realtà, chi può stabilirlo? Resta l’esperienza senza connotazioni, se non di amarezza e rimpianto dell’innocenza perduta: “Bambino cresciuto nell’agglomerato senza varcarne mai i cancelli, fino a quel momento mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente”.

È un romanzo di formazione? Può essere. C’è il richiamo a Il signore delle mosche, ma contiene al tempo stesso tanti di quei rimandi che si potrebbe compilare un elenco. Viene in mente a tratti, la visionarietà lunare di certo Landolfi o il guizzo creativo di Calvino, per esempio nell’invenzione di un dente che trattiene la memoria. C’è anche traccia della letteratura apocalittica (fino dal principio il richiamo è al libro sacro),  il rimando al picaresco e insieme alle utopie negative del ‘900. C’è qualcosa del nostro tempo e c’è la metafora circolante in ogni dove. Ci sono citazioni narrative implicite e nel contempo c’è la forza di una narrazione che sa e può procedere con le proprie gambe. C’è, a livello tematico, il sovvertimento di ogni criterio, ordine, etica. Si sta in uno spazio-tempo al di là del bene e del male raccontato con linguaggio sicuro e denso. C’è un potere astratto dedito alla manipolazione dell’infanzia (che sia il mito di Alberto Savinio). C’è il dolore dell’infanzia perduta, unico momento di integrità e dignità umana, e soprattutto il rammarico verso un mondo che la estingue, l’infanzia. “Iniziavo a intuire quel che Petronella nelle sue stanze aveva capito ben prima di me e cioè che l’infanzia finisce e che una bambina bonsai non la si può sradicare”.

TITOLO: Bambini bonsai
AUTORE: Paolo Zanotti
EDITORE: Ponte alle Grazie
DATI: 2010, pp 229, € 17,00

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