Gruppo di famiglia in un interno

Sono passati 25 anni dal suo esordio folgorante, Revolutionary Road (1961), e Yates sembra voler chiudere la propria carriera testando il proprio talento e il proprio mestiere scrivendone una sorta di remake. Cold Spring Harbor” è l’ultimo romanzo lungo di Yates (pubblicato nel 1986) e condivide con il primo parecchi elementi: innanzitutto il fatto che il titolo sembri definire e segnare il destino dei suoi protagonisti, e che questo corrisponda al luogo dove è ambientato; la suburbia all’ombra della Grande Mela è ancora una volta il teatro in cui si svolge l’azione, ideale non-luogo per gli (anti)eroi che lo abitano; la struttura narrativa ha come fulcro una coppia dalla quale si diramano e intrecciano le vicende di altre due famiglie; e inoltre, ancora frustrazioni e sogni spezzati. Ma rispetto all’esordio ora il racconto è più corale e lo stile più raffinato, se possibile.

Yates non interviene direttamente sulle emozioni dei suoi protagonisti, ne accarezza pietosamente l’evolversi nel loro percorso deleterio. Una pietà che comunque non concede nulla alla condiscendenza anche se condita da un’ironia mai del tutto cinica. Le illusioni che fanno da bussola agli inetti yatesiani vengono meno in una caduta a domino sotto il peso di una scrittura la cui cifra stilistica si pone decisamente agli antipodi delle mode letterarie dell’America anni ’80, quando venne pubblicato per la prima volta Cold Spring Harbor.

Il suo è un tipo di realismo accomunabile a quello di Theodore Dreiser, ma con caratteristiche fortemente cinematografiche. Nonostante questo, l’unico adattamento per il grande schermo delle pagine di Yates è il film sbagliato di Sam Mendes, dal sopraccitato Revolutionary Road, sorretto da un’unica, benché geniale, intuizione: quella di far recitare i protagonisti anticonformisti del kolossal di James Cameron Titanic (che cosa sarebbe successo agli amanti anticonformisti e alla parvenu tollerante e anticlassista se fossero arrivati in America?).

Discepolo di Anton Cechov, maestro di Raymond Carver, contemporaneo a John Cheever, Yates ripropone la sua dialettica negativa, non riconciliata, priva di catarsi. Ogni aspettativa è prontamente delusa, o dalle azioni o dal narratore che non esita a scoraggiare qualsiasi falsa speranza, e la fine del sogno raggiunge livelli di pessimismo cosmico ma senza mai abbandonare la realtà esistenziale per una posizione metafisica. L’uomo si condanna da solo al proprio inferno, non ne è predestinato, e questo inferno è sempre la famiglia, disfunzionale, invasiva, inevitabile.

Con Cold Spring Harbor, Yates si allontana dagli ambienti velleitariamente intellettuali di Revolutionary Road così che l’elemento autobiografico sia ulteriormente filtrato. Ma è sempre di se stesso che racconta e lo fa con una tale sincerità che noi lettori non possiamo che riconoscerci nei suoi protagonisti e imbarazzarci, perchè la tragedia non è più solo americana.

Titolo: Cold Spring Harbor
Autore: Richard Yates
Editore: Minimum Fax
Dati: 2010, 243 pp., 13,00 €

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