Del morire: ovvero come allenarsi a trapassare rimanendo in vita

Magritte, Ritratto di Madame Récamier

“L’importante è che la morte ci sorprenda vivi!” (Marcello Marchesi)

Morire dal ridere, sì  certo: è operazione comunemente accettata, lecita. Morire di noia è degli stolti. Morire dentro talvolta può uccidere germi e batteri e pulire l’organismo più dei fermenti lattici; invece morirsi addosso, più di parlarsi addosso e alla stregua di varianti fisiologiche, comincia ad essere azione sconveniente. Morire in sé per sé disturba chi lo fa, indispone chi lo subisce in veste di parente e amico, turba chi si trova lì per caso. Un’ineleganza. Non riuscire a morire, è anch’essa una seccatura non da poco, apre un campo di ipotesi e possibilità su cui attecchiscono ideologie e le politiche che tastano, tastano il polso ai vivi, possibilmente elettori aventi diritto. Vivere da morti è un gran peccato, quante occasioni sciupate; morire in vita invece un ottimo esercizio da praticare anche più di una volta al giorno senza controindicazioni. Morire prima di morire, l’allenamento di chi ha talento a vivere l’istante frazionandolo in gocce di luce.

Declinare la morte in tutte le varianti, ma sempre sub specie psychoanalytica e uscirne più vivi che mai, anche più di prima: questo l’ardimentoso obiettivo dal Centro studi di psicologia e letteratura fondato da Aldo Carotenuto, che sul tema ci ha intessuto su una giornata di studi.

Del morire, è stato infatti il titolo di questo undicesimo convegno appena concluso che, come d’abitudine, il Centro Studi di psicologia e letteratura organizza ogni anno nella sede della Facoltà di scienze della comunicazione grazie all’ospitalità del preside Mario Morcellini.

Morire prima di morire, morire dove regna Amore: questo il titolo dell’imprescindibile intervento d’apertura di Giorgio

Il sogno di Dante, Dante Gabriel Rossetti, 1870

Antonelli, psicoterapeuta, che del centro studi di psicologia e letteratura è presidente.

La sua idea, forte e chiara, è che “l’io che massimamente teme la morte è di fatto l’unico mortale” Quindi, visto l’inconveniente che all’io è toccato in sorte nel creato, tanto vale impegnarsi ad apprendere la preziosa arte di morire prima di decadere. Come? E soprattutto dove? Ma è evidente: “Nei luoghi dell’abbandono”, che sono i luoghi “dell’amore, del sogno, dell’analisi, luoghi in cui ne va di un trascendere confini, quegli stessi ai quali l’io s’àncora perdendosi”. Luoghi dove il mondo che conosciamo si dissolve, le coordinate spazio-temporali anche, l’io si decompone. L’amore è perdita del sé, annullamento dell’ego per entrare in ciò che Antonelli definisce “movimento uno”. Sognare è per chi dorme “una sorta di apprendistato della morte”. Piccola morte è il sonno tramato di sogni. Nessuno vegli, insomma, se vuole attraversare lo specchio, a meno che l’io proprio non voglia saperne di fare questo apprendistato “perché l’inconscio è e gli appare come terra dei morti, una Totenland”. Anche nel setting, la seduta terapeutica, nulla resta dei contorni soliti, la logica si va a far benedire, gli schemi di pensiero decadono e si sperimenta il morire davanti agli occhi di un altro. Morte come sconfinamento. Nessun vivo può insegnarci a morire nella vita, ma da soli possiamo e dobbiamo, che ci piaccia o no, “morire molte morti, fare esperienza del morire” in questa dimensione.

Ci sono innumerevoli modi in cui la morte è entrata nel cinema e ne è uscita. Per Jean Cocteau, il cinema stesso “è la morte al lavoro”. Originalissimo l’intervento di Amedeo Caruso, medico e psicoterapeuta, che con occhio psicoanalitico ha scandagliato le sequenze tanatologiche nel cinema di Bergman (Il settimo sigillo), Antonioni (L’avventura e La notte), Fellini (Casanova, Roma, La nave va, Ginger e Fred), fino a Woody Allen. In Tutti dicono I love you, Joe (impersonato da Woody Allen), annuncia ad amici e parenti la sua volontà di suicidarsi così: “Io ecco, sono distrutto. Non so dirvi quanto. Io, sentite, io mi uccido… sì è così, dovrei, ma sì, dovrei andare a Parigi e gettarmi dalla Tour Eiffel, così muoio. Anzi, se prendo il Concorde posso morire tre ore prima, sarebbe perfetto… Oh, ah, un momento. Col fuso orario potrei essere vivo altre sei ore a New York, ma morto da tre ore a Parigi! Potrei fare delle cose, pur essendo già morto!”. Il cinema, ci ricorda Cocteau, “permette di sognare a tutti lo stesso sogno. È l’arte che dà corpo ai sogni”.

Juan de Valdes Leal, Allegoria della morte

Bruno Callieri (presidente onorario della società italiana di psicopatologia), non ha dubbi: “Il senso e i sensi della morte”si trovano se e quando si rimuovono le rimozioni in sosta nevrosi. La morte è costituiva dell’essere (Heidegger ce l’ha insegnato). Indi per cui, morire dà senso alla vita. L’unica possibilità di conoscenza di questo mistero è data dalla morte degli altri. Ma oggi, sempre più affidiamo ai “tanatocrati” il compito di “far morire bene, cioè in modo non disturbante, igienico, decoroso, non urtante”. Resta il silenzio del cadavere: la morte è drastica rottura della comunicazione, “lo scacco più radicale della polarità intersoggettiva”. E tuttavia, volerla rimuovere a ogni costo è di una cultura un tantino nevrotica. L’angoscia di morte è dei melanconici ed ispira le psicopatologie di ogni ordine e grado. La grande incognita è “iscritta nella carne stessa dell’uomo, radice costitutiva dell’ambiguità del suo esserci”. Tanto vale fare conoscenza. “Soltanto l’uomo può pensare la morte e crearsi l’immagine della propria morte”, sostiene Simonetta Putti, analista junghiana e socio fondatore del centro studi psicologia e letteratura. Il suo intervento, “Il limite come attrattore di senso”, lo dichiara da subito: è la morte, la consapevolezza tutta umana di essere calati in questa realtà, a dar forma alla vita. A seconda poi della propria concezione del mondo, la consapevolezza di avere una data di scadenza, può agire da blocco o da motore. Resta la possibilità di scatenare “la creatività del quotidiano” come metodo per “consentire l’inserimento morte nel quadro del vivere”. Sulla scena collettiva, infine, l’idea della morte oggi è vissuta secondo “una junghiana scissione degli opposti”: tra rimozione e spettacolarizzazione. Anche il terapeuta deve familiarizzare con thanatos, al di là del senso comune. “Auspico – dichiara Simonetta Putti – che la didattica per i futuri analisti preveda un’informazione-elaborazione ponderata della tematica”.

A questo punto, chi è  sopravvissuto alla lettura dell’articolo ha due possibilità: o pietrificarsi o fare di sé un trapassato ma non remoto.

È di aprile l’ultimo numero del giornale storico del centro studi di psicologia e lett., a cadenza semestrale, monografico, dal titolo Del morire.