Diaz: non sempre le Forze tendono all’Ordine

Vi chiedo di spiegarmi soltanto una cosa, è davvero così bello il mondo che abitate? No, perché magari fate parte dell’1%, di quella ristretta cerchia che detiene il 38% della ricchezza del mondo. Oppure forse vi siete bevuti la favola che il libero mercato si autoregola e che il welfare sociale è da riservare solo alle banche cadute in disgrazia. E sono quindi necessari nuovi sacrifici per permettere alle suddette banche di fottervi un’altra volta. Punti di vista. In ogni caso quello della polizia è chiaro. La polizia è il braccio armato del potere politico vigente, qualunque esso sia. Il nome composto rende meglio l’idea: Forze – predisposte dunque, ove fosse il caso,  all’azione violenta – dell’Ordine – atte a garantire la difesa della disciplina sociale che consente alla classe dominante di perpetuare i propri privilegi. Nella pratica, la tutela dell’ordine e la repressione dei reati previsti dal codice penale garantisce che i reati d’alto bordo (nella gestione dei soldi pubblici, nella finanza come nei rapporti transnazionali), possano essere commessi senza eccessivi scompensi per la società civile. Siete proprio sicuri che sia così bello il mondo che abitate?

«Far amare agli schiavi la loro schiavitù: ecco qual è il compito ora assegnato negli Stati totalitari ai ministri della propaganda, ai caporedattori dei giornali e ai maestri di scuola»: le fosche previsioni di Aldous Huxley, nella prefazione a Brave New World (1932), non avevano immaginato la variante linguistica contemporanea: non c’è alcun bisogno di scomodare gli stati totalitari, possiamo chiamarla benissimo Democrazia. In Italia, fino alla riforma elettorale del giurista padano Calderoli, nel 2005, gli elettori avevano se non altro la libertà di scegliere chi li avrebbe governati. Con le attuali liste bloccate, al limite, possono ancora scegliere chi è stato nominato, su indicazione dei capipartito, per rappresentarli in Parlamento. Eravamo in democrazia – così almeno ci hanno rassicurato le istituzioni – anche la notte del 21 luglio 2001 a Genova (il G8 si era ormai concluso) all’interno della scuola Diaz, quando gli agenti del nucleo antisommossa fecero irruzione e si scagliarono contro gli attivisti del Genoa Social Forum, che avevano solo la colpa di essersi raccolti lì per passare la notte. Uscirono dalla scuola in manette o in barella, destinati all’ulteriore supplizio della caserma di Bolzaneto, dove la violenza fisica e psicologica fu esercitata a freddo, senza nemmeno l’impeto dello scontro come movente. Tali pratiche non furono in seguito riassunte sotto il nome di tortura nelle sedi processuali: il codice penale italiano, ad oggi, non prevede questo reato. Si trattò solo di un brutto sogno? La mattina dopo, le macchie di sangue sul pavimento, sui termosifoni e sulle pareti dicevano che era tutto vero. Qualcuno scrisse sopra un cartellone Don’t clean up this blood (Non lavate questo sangue).

Diaz, di Daniele Vicari, è un action movie condensato nello spazio di circa dieci ore. O meglio, la percezione temporale è tutta schiacciata sull’assalto alla scuola e sul secondo round a Bolzaneto; la violenza, e la sua rappresentazione, sono il fulcro del film; la violenza, libero sfogo di bassi impulsi su ragazzi inermi, è la molla che spinge a realizzare Diaz; la violenza, per certi versi, prende in ostaggio il film e non gli permette di respirare, dato che manca una struttura narrativa solida e i personaggi, seppure tutti ricalcati su figure reali, non assurgono mai al ruolo di protagonisti, risentendo dell’atomizzazione della storia che si rifrange tra i suoi diversi interpreti e non dà modo al pubblico di affezionarsi davvero a nessuno. Risultato che consente, ad ogni modo, di rendere le sequenze cruente più sopportabili. Perché anche gli spettatori, loro malgrado, sono presi in ostaggio, e avanzano in equilibrio sul margine oltre il quale ci si sente voyeur; gli spettatori sanno quel che dovrà succedere, conoscono i fatti, attendono lo sciogliersi del dramma sospesi tra il timore di guardare e la paura di ritrarsi, di rifugiarsi nell’idea che sia stato tutto soltanto un film. Rumore bianco e un’esplosione, questo è Diaz.

Ora immaginate di avere per le mani un manganello (uno; non al plurale come i capi della polizia). Fendete l’aria con questo bastone e sbizzarritevi con la fantasia: per quali fini pacifici potrebbe essere destinato? Allora? Cos’è quella faccia perplessa? Il fior fiore delle missioni di pace è sempre stato fatto con armi ben più deleterie. Un manganello, del resto, che cosa può provocare, un trauma cranico? Qualche ematoma? Di sicuro dopo si calmano. E quanta pace si respira nei cimiteri! Ma ora non divaghiamo, entriamo piuttosto sotto l’elmetto altrui: – Respira. Sei nei corpi speciali, quei no global figli di papà hanno assediato Genova per tre giorni, e pazienza se quasi tutti volevano solo manifestare, adesso i Capi hanno dato l’ok, possiamo dargli una lezione, possiamo fargli capire l’aria che tira in Italia nel 2001. Respira. Sei nei corpi speciali, tu e gli altri, legati assieme, pronti ad entrare in una scuola piena di ragazzi, per la maggior parte  stranieri – che fai, non lo usi quel manganello!? “Perché i Capi hanno dato l’ok”: è necessario tenerne conto. Non vogliamo certo dire che i poliziotti siano burattini nelle mani dei superiori, dato che il richiamo del sangue, l’aggressività e il gusto del pestaggio sono innati nell’uomo da ben prima che si indossasse una divisa per giustificarli, non sarebbe giusto fare di tutta l’erba un fascio (soprattutto parlando della polizia). Né possiamo dimenticare i servigi resi dalle forze dell’ordine al Paese, o le oggettive difficoltà in cui si trovano ad operare in seguito ai tagli imposti dal governo (la vita difficile degli agenti antisommossa è stata rappresentata di recente in ACAB – All Cops Are Bastards, di Stefano Sollima). Mentre Genova bruciava, protetti nella Zona rossa, i Grandi della terra discettavano sui destini globali tra una tartina al salmone e un bicchiere di Chardonnay, intrattenuti dal padrone di casa, Silvio Berlusconi, da poco rieletto primo ministro, che occultava le falle organizzative del G8 dietro il proverbiale sorriso. Proprio quando, per contro, il suo vice di allora, Gianfranco Fini – che nel 2001 non aveva ancora rinnegato i padri – si aggirava nella sala operativa della Questura di Genova e il ministro della Giustizia, il leghista Roberto Castelli, che aveva trascorso quella notte a Bolzaneto, dichiarava convinto di non aver assistito a nessuna violenza. Non sarà mica vero quello che fino all’ultimo ha sostenuto Giorgio Bocca, che il fascismo sia un tratto congenito della maggioranza degli italiani?

Il contesto politico e le ragioni dei no global (la denuncia della crisi mondiale che il neoliberismo avrebbe acutizzato dieci anni dopo), rimangono sullo sfondo del plot senza essere approfondite: come abbiamo scritto sopra, infatti, Diaz è prima di tutto un film d’azione. Ma è un film d’azione politico, la sceneggiatura è costruita sulle carte processuali e i suoi padri ispiratori sono i registi impegnati degli anni ’60–’70, come Francesco Rosi ed Elio Petri. Non solo. Diaz è un film vivo, nervoso, che ricorda il cinéma vérité nell’ibridazione dei materiali impiegati (sequenze di repertorio sugli scontri, inserti amatoriali dei testimoni e set ricostruiti in studio), nella fotografia sgranata di Gherardo Gossi e nel frequente ricorso alla macchina a mano (con un approccio che rimanda a Bloody Sunday di Paul Greengrass). A questo riguardo, bisogna rimarcare  il forte scarto che separa il film di Vicari da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, uscito quasi in contemporanea, che nell’occuparsi dell’attentato di Piazza Fontana ha la stessa verve di un museo delle cere animato al suono di un carillon. Diaz è un film corale, Genova è spesso ripresa dall’alto e lo sguardo del regista si posa ora sulle forze dell’ordine (individuate come corpo, salvo che nel personaggio interpretato da Claudio Santamaria, unico agente attraversato dal dubbio), ora sui destini singoli di alcuni manifestanti, legati fra loro dal sangue che fu versato quella notte. C’era chi non si trovava alla Diaz per puro caso, e mentre dentro proseguiva il macello stava ballando intorno al fuoco con amici occasionali, come se fosse stata soltanto un’altra notte d’inizio estate. Questa pluralità di esperienze, per altro, è una prerogativa che può adattarsi al film stesso in relazione alla cinematografia italiana contemporanea. Forse non ci sono solo Maschi contro femmine, Benvenuti al Nord, Immaturi e Vacanze di Natale assortite, forse è ancora possibile raccontare il presente senza passare attraverso le maglie della commedia sentimentale populista, innocua e lieve e senza tempo: proprio quel genere che risulterebbe gradito sotto un regime totalitario. Diaz merita di essere visto anche solo per questo. Le altre ragioni, per lo spettatore e per il cittadino, dovrebbero ormai a questo punto essere chiare. Buona visione.