Le montagne non partoriscono topolini ma generali

Giocando si impara, dice il saggio di antico lignaggio, forse troppo antico. Sarebbe meglio dire che giocando si disimpara un certo stare al mondo irreggimentato,  in un mondo innaffiato dal potere. Il gioco dell’arte, un certo gioco artistico smonta ogni volontà di potenza e scardina le porte al vetriolo dei generalissimi del mondo. Questo è il gioco “appiccicoso” di Enrico Baj, pittore patafisico ma anche scrittore e critico, autore di libri pur sempre patafisica. La patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie all’insegna anche del motto  “peggiorare o perire”, irrorata di dadaismo, surrealismo ed altri ismi disobbedienti. Il viandante che quasi per caso o per intenzione, comunque giocosamente e gioiosamente si trovi a passare a Castiglioncello,  (provincia di Livorno) magari in cerca di un caciucco da farsi ricordare, e faccia tappa al castello Pasquini troverà invece in loco un panorama memorabile e una mostra dal titolo “Dalla materia alla figura”, opere di Baj certo, o mostriciattola nel senso che è una mostra piccina (sei sezioni che raccolgono 77 opere composte dal 1951, anno di fondazione del movimento nucleare e della pittura da parte di Baj e Sergio Dangelo, fino agli anni ’90), ma eloquente perché condensa il gioco di una vita. “Il mio lavoro confina con il gioco, a tal punto che spesso uso, quale materiale pittorico, veri e propri giocattoli. Giocando riaffiora in noi la nostra infanzia e oggigiorno vi è proprio un gran problema di come restituire all’uomo affranto dalle nevrosi la sua felicità, la sua grazia e serenità infantile. Il problema dell’uomo ludico, o giocante, è il problema di tutti noi e i governi, anziché imporre colle leggi il servizio militare obbligatorio, meglio farebbero a imporre il gioco militare obbligatorio”, scrive Baj a Parigi nel maggio del ‘66.  E allora, il percorso espositivo creato per l’occasione e visitabile fino al 26 settembre, racchiude la storia artistica di Baj dalla composizione di materia pericolante e pericolosa alle montagne, ai generali e dame, fino ai meccano, quindi maschere tribali e totem. Il Baj degli anni della minaccia nucleare e dell’avvio del percorso espositivo, è tutto concentrato sulla materia come magma primordiale, da cui emergono forme che assumono sembianze umane o quasi: la zia Vannia, olio e collage su tela del 1955 è un antro-bocca della verità, dadaista e vagamente cannibale.

Faccioni e autoritratti svelano materia in stato di allerta. Finché dal magma in continuo divenire, contraddistinto da elementi vitali che sono mani e occhi, emergono  montagne in divenire, e vi guardano dalle sale del castello Pasquini, altro che caciucco. A mangiarlo casomai si va dopo! “La grande roccia”, olio e collage su tela del 1959 è un prodigioso scivolamento e agitarsi di materia viva, tutto si muove. “La montagna”  del 1957, olio su tela, ha occhi e visi e guizzi di tensione sparsa. Così di tappa in tappa, a furia di darci dentro con l’antropomorfismo, il gioco cambia ancora: le montagne di Baj non partorisco topolini ma nel processo di personificazione, assumendo l’aspetto della brutalità e della prepotenza, espellono generali e generalissimi, realizzati in modo giocoso e originale grazie a due “incontri” fondamentali nella vita di Baj. Il primo con un tappezziere nonché materassaio di Porta Ticinese (Milano, città natale di Baj): “Lì fui attratto dalle stoffe a fiori per materassi, dalle ovatte usate per imbottire divani, da cordoni, fiocchi e passamani. Quelle materie, quei manufatti, s’imparentavano a ricordi della fanciullezza (…). Quel tappezziere di Porta Ticinese vedendomi così ardentemente , quasi sessualmente, attratto dai suoi tessuti, mi regalò alcuni scampoli di stoffe di materasso a fiori, un foglio d’ovatta e qualche cordone”. In quegli stessi giorni, Lucio Fontana gli regalò una piccola scorta di ciottoli e schegge colorate. Ma più di tutto potè la colla, l’incontro decisivo con il Vinavil, innamoramento a vita perché “bianca, densa e filante come latte condensato”, consentì a Baj di praticare l’arte combinatoria degli elementi, il collage. “Stoffe, ovatte e vetri furono gli elementi dei miei primi collage destinati a mutare il corso della mia pittura la quale si realizza largamente su quel terreno che definirei magico infantile primario, scrive Baj in Automitobiografia, frammenti che troverete in esposizione. Le figure che prendono corpo sono i generali e le loro dame, così riconoscibili e caratterizzanti la cifra stilistica di Baj, propri del suo universo che è un richiamo continuo all’infanzia “e nessun mondo è più infantile e più puerile di quello dei giochi del meccano, delle bandiere e delle sfilate”.

I generali fatti di acrilici e collage serbano memoria della lezione di Rabelais, ma anche di Jarry, il creatore di Ubu Roi, emblema della tronfia vacuità del potere. Attenzione ai generali e alle loro trionfali insegne: “Essere decorati, ricevere una medaglia da appendere sul petto è il sogno di tutti. Essere generali, comandanti, professori, commendatori, cavalieri, poter impartire ordini, disporre delle cose e degli eventi, è la nostra più riposta ambizione”. (Ancora Automitobiografia). Non c’è generale che non sia accompagnato dalla sua buona dama, modalità per Baj di disfarsi di cordoni, frange, fiocchi, passamani che aveva accumulato nel suo studio, addobbate di ornamenti e nomi pomposi come la Zita de Boubon-Parme, Imperatrice d’Autriche (collage su tavola, 1975) in esposizione.

Circola molta ironia nell’opera di Baj e gioco e castigo sovversivo, perché a detta dell’artista di cui si ascolta la voce e si vede grazie ai filmati raccolti nelle teche di mamma Rai e proiettati in una sala, tralasciate le bombe molotov, l’arma migliore per combattere il sistema e le sue distorsioni è l’ironia, il gioco, appresi alla scuola dadaista e surrealista. “La mia- racconta Baj cinepresente tra noi– è una pittura estremamente espressionista, d’assalto, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche cromatico”. Gioco che va all’assalto anche attraverso il meccano che è il gioco combinatorio per eccellenza. Tutta la vita è combinazione e nell’arte la combinatoria degli elementi, come un collage per  fare pittura, è fondamentale. Tutto è buono per fare pittura: “Ti impiastro tutto nel quadro: amori, dolori, mali di pancia, medaglie, trine, targhe e specchi, specchi scomposti entro i quali la mia immagine si rompe e così mi piace di più” (Autodamé. Collages e scritture).

L’arte è un gioco e allora ben venga l’uso dei giocattoli, meccano e lego, per proseguire l’ironica contestazione, in una tappa quasi finale. Testimoni sono, alla fine del percorso, “La Guardia di Ubu”, meccano 1985 e i collages di lego. L’ultima coloratissima stazione espositiva testimonia la produzione matura di Baj: le maschere tribali e i totem , perché “In un certo senso la maschera è l’ultima via di evasione per mezzo della copertura e della simulazione del volto”. Gioco per stupire ma anche per portare avanti ancora la disamina sulla vocazione masochistica umana per la catastrofe. Una vita all’insegna del gioco e della responsabilità di giocare da perfetto homo ludens. Così tanto “accanimento” ludico, ma poi perché? “Uno spera di lasciare breve o labile traccia di sé e di quello che fa”, dice candidamente Baj nel documentario. Attaccatevi, se non ci credete, a quel che volete, purché siate muniti di un vero attacca tutto. Altrimenti finite tutti giù per terra!

Enrico Baj: dalla materia alla figura. Fino al 26 settembre, Castello Pasquini di Castiglioncello (Livorno)