E vissero tutti felici e redenti: se la psicologia interpreta le fiabe

“Siamo tutti poveri diavoli in lotta con un destino difficile del quale non conosciamo l’inizio e la fine”. Anche dio ha il suo lato oscuro, figuriamoci noi. Vengono in nostro aiuto le fiabe che, se interpretate al di là di una adesione ingenua o sentimentale, registrano l’accadere psichico, come pure i sogni e  l’uso cosciente dell’immaginazione attiva. Inizio, intermezzo e conclusione del volume Le fiabe del lieto fine, psicologia delle storie di redenzione della celebre psicoanalista junghiana Marie Louise von Franz, sono intrisi di un incessante ammonimento: nel cammino contorto della vita, esperienza priva di senso e destinazione, le fiabe, in superficie solo buffe invenzioni attribuite al folclore, sono frutto di un sapere antroposofico, vangeli “apocrifi”, parabole sull’anima che danno conto di un itinerario, anche spirituale. Per comprendere il significato della fitta trama di simboli che le attraversa, occorre abbandonare l’intellettualismo a favore dell’ascolto di ciò che il simbolo stesso ha da dire, lasciarlo parlare. Il volume è la trascrizione di sette conferenze che l’allieva e assistente di Carl Gustav Jung tenne proprio all’istituto Jung, messe insieme forse con qualche forzatura (in certe lezioni più che di fiabe,  si parla di sogni, di casi di pazienti, o di quelli che sono definiti “analizzandi”). Interessa il concetto della storia a lieto fine attraverso la redenzione non nel senso cristiano della salvezza escatologica, ma solo psicoanalitica; redenzione come liberazione, quindi  possibilità di arrivare al Sé: totalità psichica dell’individuo e centro regolatore della sua vita interiore. Le fiabe per Marie Loiuse che spese una vita a esplorarne gli archetipi, sono indici non solo dello stato di salute psichico, ma offrono anche un metodo, procedure terapeutiche per un processo di guarigione.

Fiabe di  tutto il mondo, di ogni tempo, raccontano di personaggi costretti a subire incantesimi, sortilegi, malefici fino a essere trasformati in animali (draghi, orsi, serpenti, rane, ma anche colombe, anatre, cigni e altri ancora); e del percorso che tocca fare a principi e re (bagni purificatori, caldi o freddi o in sostanze strane; oppure decapitazioni e azioni estreme) per sottrarsi al baratro, tornare alla vita e scoprirne l’apice. La psicoanalista ritiene deleterio confondere gli eroi della fiaba con reali tipi umani. Occorre riconoscerli per ciò che sono davvero: archetipi. Ancora più pericoloso che ignorarli, è applicare elementi di psicologia junghiana (Io, Anima, Sé) restringendo o distorcendo la storia per fare sì che uno schema mentale aprioristico funzioni. La fiaba è materiale collettivo, plastico: ha a che vedere con il simbolismo alchemico, svela chi siamo. Fermo restando che la psiche è e resta qualcosa di misterioso, si può dire per Marie Louise che “la condizione di un individuo è ottimale quando il complesso dell’Io agisce in sintonia con il Sé, producendo una quantità minima di disturbi nevrotici”. Invece il maleficio arriva quando si cade in uno stato nevrotico, o peggio. Se l’anima è nevrotica contagerà ogni aspetto dell’essere fino a che ci si sentirà come stregati. Perché mai avviene? Infinite sono le vie che portano alla nevrosi. Magari un impulso ci obbliga ad assumere un comportamento sbagliato, perdiamo l’equilibrio interiore, si sviluppano stati contraddittori, la faccenda si complica, parti di noi entrano in conflitto, la totalità della psiche ne soffre. Le fiabe raccontano il male e la cura. La von Franz prende in esame fiabe popolari e anonime,  poi quelle dei fratelli Grimm, alcune molto complesse e ingarbugliate che se si resta a una adesione letterale e ingenua paiono oscure. Ma von Franz ribadisce: sono chiare se le intendiamo come indicazioni comportamentali. Se sbagliato è ciò che ci fa diventare esseri ‘stregati’, quale è il comportamento giusto? Quello in armonia con la totalità psicologica di ognuno. Occorre applicare il metodo altrimenti detto del pensiero simbolico.

In una fiaba dei Grimm, L’uccello d’oro, un eroe deve trovare una bella principessa e viene aiutato da una volpe che alla fine gli chiede di essere decapitata; l’eroe vorrebbe rifiutare per la riconoscenza che ha verso l’animale; la volpe insiste che gli vengano tagliate testa e zampe; quando acconsente appare un bellissimo giovane, fratello della principessa e cognato dell’eroe. Solo recidendo parti false o falsate della personalità persino in maniera traumatica si libera l’essere dai condizionamenti. A volte è necessaria la separazione dell’intelletto, sede della coscienza, dalla parte istintiva per vedersi, scoprire di che pasta si è fatti (istinti, impulsi, pensieri) senza pregiudizi e con un certo distacco. Oppure è necessaria la ‘decapitazione’ se la testa è portatrice di sterile avvitamento su se stessa; vale come rinuncia al desiderio di comprendere che solo può permettere un accesso tanto alla vita dell’inconscio che dell’Anima. L’anima va estratta secondo la procedura alchemica della ‘extractio animae’: “l’essere divino è sepolto e deve essere estratto dalla materia grezza”. La vita è un’esperienza senza senso, sembra convinta Von Franz. Talmente senza senso che il Sé va portato alla luce dalle profondità dell’inconscio; a volte persino protetto dalla luce, se la coscienza non sa riconoscere il castello interiore d’oro e d’argento che secondo la mistica cristiana Teresa d’Avila è il nucleo della psiche. Chi lo trova in sé  arriva nel giardino delle delizie: il non luogo “descritto dal buddhismo Zen o da altre esperienze mistiche in cui l’Io vive il Sé e si riunisce a esso”.

 

Titolo: Le fiabe del lieto fine
Autore: Marie-Louise von Franz
Editore: Red Edizioni
Dati: 2004, 141 pp., 8,00 €

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