Fiabe sulla morte per imparare a vivere

“Perché noi siamo solo guscio e foglia. La grande morte che ciascuno ha in sé è il frutto intorno a cui tutto si svolge”: nei versi del poeta Rainer Maria Rilke (Il libro della povertà e della morte), c’è tutto il nucleo autentico del nostro esistere. La vita è a ogni istante creazione o dono della “grande morte” e andrebbe plasmata in base a questi presupposti. Tempo fa c’è l’ha ricordato con espressioni inequivocabili il filosofo Martin Heidegger: essere nel mondo è “esser per la morte”; “la morte sovrasta l’esserci”. Stanti tali premesse, si dovrebbe aprire le porte alla coscienza anziché rimuovere la finitezza come il nostro mondo di apparenze fa. Fiabe e sogni, come sempre, manifestano questioni ontologiche fondamentali. Due fiabe dei fratelli Grimm, in particolare, Il compare e Comare morte (nell’interpretazione del teologo e psicoterapeuta Eugen Drewermann, pubblicata da Magi editore) danno risposte diverse allo stessa questione. Nella prima fiaba, un uomo ha tanti figli e non trova chi faccia da padrino all’ultimo nato. Sogna che deve accogliere come padrino il primo che incontra per caso. Obbedisce al sogno: un forestiero gli regala una boccetta d’acqua magica. Da quel momento scopre che può guarire i suoi simili, ma a partire dalla visione della morte che gli è concessa avere: se la morte è al capezzale del malato lo potrà guarire; se invece ai suoi piedi, nulla potrà fare. Per due volte l’uomo guarisce un principino, ma alla terza non può più salvarlo: la morte è ai piedi del bambino pronta a portarlo via. L’uomo allora decide di far visita al suo compare per raccontargli l’accaduto e scopre che ha due lunghe corna e scappa terrorizzato. In Comare morte c’è ancora un uomo che alla nascita del tredicesimo figlio, cerca un padrino. Stavolta non si affida ai sogni per trovarlo ma va in strada. Incontra il “buon Dio” ma l’uomo lo rifiuta per compare perché è il Dio dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza sociale. Si propone il diavolo: rifiuta ancora perché è ingannatore. Arriva un terzo personaggio: “sono la morte che fa tutti uguali”. Stavolta l’uomo accetta. La morte fa da madrina di battesimo del figlio e per regalo lo farà diventare un medico famoso. Stavolta la morte gli dona un’erba che può guarire i malati, ma ancora una volta solo se è lei a concedere di guarirlo. Il giovane diventa “il medico più famoso di tutto il mondo”. Si ammala un re e la morte è ai piedi del letto: il medico vuole imporsi, cerca di ingannarla e volta il malato cosicché la morte si trova alla sua testa e il re guarisce. La signora nera è leggermente risentita. Si ammala la principessa, di cui il medico si innamora tanto è bella. Di nuovo il medico ricorre al suo trucco per salvare la ragazza. Ma la morte defraudata per la seconda volta, se lo prende e lo porta in una caverna sotterranea e gli mostra migliaia e migliaia di candele, grandi, medie, piccole; alcune ardono, altre si spengono, qualcuna si riaccende. Le candele sono le vite umane. Il medico implora la madrina che riaccenda il suo moccolo flebile; lei finge di esaudire la sua richiesta ma il moccolo si spegne e il medico cade a terra finito.

Queste fiabe, dietro la loro apparente vaghezza, allusività simbolica, sono invece precise parabole sul mestiere del medico, sul concetto di guarigione e sulle vere proporzioni tra vita e morte. Nella prima, l’uomo non viene esplicitamente definito medico; nella seconda sì. Nella prima l’uomo diventa medico a partire da un sogno: per vedere bisogna affidarsi al fratello della morte, il sonno e il processo onirico, come fa la psicoanalisi. Il  medico come lo sciamano, come il guaritore può e dovrebbe essere un “dio vestito di bianco” a condizione però che riconosca la giusta costellazione della morte, la sua posizione rispetto al malato e il suo essere la regina del mondo. Il medico è figlioccio della morte perché sa e vede che è incessantemente presente: la cura altro non è che una proroga  che lei concede. La “grande morte” di Rilke cresce e matura con noi e dentro di noi fino a che il guscio si rompe. Nella prima fiaba, tuttavia, il medico non sopporta la visione della fine del principino nel fiore degli anni, e quando la morte glia ppare in forma di caprone, atterrito scappa. Non può reggere la verità nuda e cruda. Può vivere solo dimenticando. In Comare morte, invece, all’opposto il medico si ribella alla morte e cerca di ingannarla. Non si affida alle visioni, ma alla ragione e da medico “ateo” ignora il buon Dio come il diavolo. Sceglie pur sempre come madrina la morte perché è con lei che vanno fatti i conti. Ma l’erba di cui dispone non è una pozione magica. Possiede solo e soltanto una forza che gli è concessa in prestito per breve tempo. Commenta Drewermann: “Noi esseri umani non siamo altro che esistenze in prestito. Nessun medico sarà in grado di modificare questo elemento centrale della nostra povertà; anzi un medico sarà tanto migliore quanto più accetterà di guardare ciò che è immutabile”.

Il medico della seconda fiaba, reso tronfio dal successo e dalla fama, supera i limiti del suo agire. Diventa figlioccio disobbediente. In nome della responsabilità (verso il re) e dell’amore verso la principessa, amore che fa vedere il lato malvagio e oscuro della morte, riesce a  prolungare la loro permanenza sulla terra. Ma cerca di ottenere qualcosa che non potrà mai ottenere: l’immortalità dell’esistenza individuale. L’agire del medico è legato a filo doppio a ciò contro cui combatte: l’eterno gioco di costruzione e distruzione che è legge di natura e sola permette che il mondo continui ad esistere. L’amore però lo trasforma: non è più il medico distaccato, smette “di recitare la farsa del servizievole gregario della morte”, diventa umano, vulnerabile, compassionevole. Non possiamo pensare allora che la fiaba sia solo una parabola moralistica deprimente in cui la morte lo punisce perché se l’è cercata. Orfeo va nel regno delle ombre per strappare la sua amata Euridice al buio eterno. Che il destino vada dove vuole o deve. Intanto scegliendo l’amore il medico si trasforma da figlioccio della morte in servitore dell’amore, in una persona vera.  Quando tocca a lui, sembra che le conquiste interiori fatte svaniscano: la paura della morte fa sì che desidera solo che la vita gli sia prolungata a qualunque prezzo. Il finale della fiaba “lascia aperte molte più questioni di quante ne risolva”. La nostra cultura duale ci  insegnato a considerare la morte un’avversaria, la nemica. Queste fiabe ci invitano a vederla come una realtà costante. Imparare a vivere è imparare a vivere con la morte, “assumerla come maestra abbandonando la presa sulle cose”. Considerare la vita “un favore immeritato finché dura”. Recita il finale di una poesia degli indios: “siamo diventati erba di primavera, arriva, vibra, mette i boccioli. Il nostro cuore, il fiore del nostro corpo., apre un paio di foglie; poi si spegne”.

Dedicato a James Hillman, psicoanalista, filosofo e poeta dell’anima

 

Titolo: Il compare-Comare morte-Ucceltrovato.
Un’interpretazione delle fiabe dei fratelli Grimm sulla base della psicologia del profondo
Autore: Eugen Drewermann
Editore: Ma. Gi.
Dati: 2007, 95 pp., 16,00 €

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