La letteratura è un’arma senza scrupoli e non ammette censure

“L’ho incontrato una sera di primavera. Sono diventata la sua amante. La tuta di latex che indossava il giorno della sua morte gliel’ho comprata io. Sono stata la sua segretaria sessuale. È lui che mi ha iniziato all’uso delle armi. Mi ha regalato una pistola. Gli ho estorto un milione di dollari. Lui me l’ha ripreso. L’ho ammazzato piantandogli una pallottola in mezzo alla fronte. È caduto dalla sedia su cui l’avevo legato. Respirava ancora. Gli ho dato il colpo di grazia. Sono andata a farmi una doccia. Ho raccolto i bossoli. Li ho messi nella borsa insieme alla pistola. Uscendo ho sbattuto la porta”. Così tanto per gradire: un getto d’acqua ghiacciata in faccia al lettore e all’ambiguità melliflua di chi fruga nella perversione altrui per non vedere la propria, per esserne contagiato quanto basta a elettrizzare la propria libido e al contempo godere della certezza di restarsene al sicuro. Benvenuti nel mondo de Il banchiere. Formidabili questi francesi: scrittori rabdomanti, fiuto e talento a decifrare le menti, sia quelle degli assassini che dei lettori, ragazzi di buona famiglia, anime pie che chiedono alla letteratura emozioni forti. Così è Regis Jauffret e così funziona la sua narrativa: scende a picco nella psiche di chi si sgancia dalla ‘normalità’: che sia un violentatore, un’infanticida (suoi precedenti personaggi molto amati dal pubblico francese) o una donna perduta. Ma chi non si perde almeno una volta nella vita? Non si cerchino ammiccamenti al lettore né si troverà mai in quest’opera un autore che sfodera giustificazioni per la crudezza con cui ha raccontato uno spicchio di mondo. Di che meravigliarsi? Non siamo in un giardino di delizie. Nell’incipit de Il banchiere dunque (Barbès editore) c’è ciò che andavamo cercando: il resoconto concentrato e diretto di un fatto accaduto davvero, la confessione asciutta di un’anima, scopertasi criminale, senza intercapedini a distanziarci dai riverberi e dalle proiezioni di ombre così scure da levare il ristoro dell’ombra.

Potremmo finirla qui, talmente è stato invasivo l’impatto; quell’incipit ha già rivelato tutto. Perché in questo compatto e incalzante  periodare d’avvio c’è l’intera vicenda, lo zenit e il nadir di una storia di eros, thanatos e perdita delle coordinate che ci fanno apparire ‘sani’; c’è un trattato di criminologia in veste di biografia nera che smentisce e azzera ogni interpretazione criminologica dei fatti a favore di un’unica verità e un unico credo: la letteratura. Il non luogo dove tutto è permesso o dove, che lo si voglia o no, tutto accade. La vita è un affare indecifrabile che ti diluisce in mille rivoli e ti rende sconosciuto a te stesso o ti inchioda a un palo tragico ed estremo svelandoti qualcosa che pure ti appartiene (un’amante diventa una mantide). E se è vero che hai alle spalle una storia d’infanzia tristissima e drammatica e ti unisci a uno psicotico reduce dai maltrattamenti materni (la vittima), non per questo c’è una traccia che spieghi certe dinamiche una volta per tutte.  La via della legge (la confessione, il processo, la prigione) è solo l’escamotage umano ufficiale per mettersi al riparo ed espellere l’assassino dal corpo individuale e sociale come fosse una malattia.  Formidabili questi scrittori francesi. Nelle mani e nel trattamento di Régis Jauffret (complice l’efficacissima traduzione dal francese di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio), un fatto di cronaca reale diventa più vero del vero, più credibile perché reso più nitido e preciso nella sua dimensione incredibile, e sull’altare della letteratura persino degno di assurgere a vita eterna. Jauffret ha praticato la cronaca come corrispondente del Nouvel Observateur e maneggia con disinvoltura la materia. La vicenda del romanzo, infatti trae spunto dall’omicidio nel 2005 di Edouard Stern, banchiere molto noto negli ambienti internazionali dell’alta finanza, uno degli uomini più ricchi d’Europa. A ucciderlo l’amante-escort, Cécile Brossard (condannata a 8 anni, ne ha poi scontati cinque ed è da poco tornata in libertà).

“Un milione di dollari è un prezzo alto per una puttana”: questa frase di Edouard Stern fa degenerare un loro consueto gioco sessuale. Dopo una relazione durata 4 anni, lei  voleva un matrimonio e un milione di dollari. Lui prima rifiuta, poi versa i soldi sul conto di lei, poi fa sequestrare la somma. Fino a che si consuma l’ultimo incontro. Lui, incappucciato e legato su una sedia nella sua casa di Ginevra, indossa una tuta di lattice rosa, come una bambola grottesca. La sua amante, accecata dalla frase, va nel guardaroba, prende una pistola e spara. Stern tenta di rialzarsi ma cade. Lei lo finisce con altri tre colpi, di cui uno alla tempia. Abbandona l’appartamento, getta l’arma e i bossoli nel lago. Fugge, prende un volo per Sidney, ritorna quasi subito, confessa dopo un lungo interrogatorio. Nella realtà della cronaca Cécile ha una storia familiare cupa: un padre libertino, una madre depressa che ha tentato di suicidarsi con le figlie; lei è stata violentata a dieci anni dallo zio, ha anche passato un periodo in manicomio. Stern, separato, tre figli, ha un carattere brusco, spesso irascibile, ama le armi,  si circonda di donne ma con Cécile  è un’altra cosa:  li unisce una relazione violenta, nella quale non si sa chi domina e chi è dominato. Non stupisce che una vicenda simile abbia catalizzato l’attenzione e ispirato in Francia due libri d’inchiesta, un romanzo, un testo teatrale e un film, al momento in stand by (la regia è di una donna, Hélène Fillierès, il personaggio della prostituta sadomaso assassina è interpretato da Laetitia Casta, per la prima volta in un ruolo hard). Infatti, dopo la pubblicazione del libro di Jauffret nel 2010 in Francia, la famiglia di Stern ha chiesto che fossero distrutte tutte le copie e fosse bloccata la realizzazione del film: entrambe le opere getterebbero discredito sulla memoria della vittima. La famiglia ha citato in giudizio lo scrittore per minaccia alla vita privata. Dieci tra i più importanti scrittori di Francia (Christine Angot, Frédéric Beigbeder, Marie Darrieussecq, Virginie Despentes, Philippe Djian, Michel Houellebecq, Bernard-Henri Lévy, Jonathan Littell, Yann Moix, Philippe Sollers) hanno sottoscritto un appello alla famiglia perché “se la domanda venisse accolta, se il tribunale decidesse di sanzionare Jauffret e il suo romanzo, il libro sparirebbe dalle librerie e dalle biblioteche, un atto di censura vero e proprio rovinerebbe l’opera di un autore, come accadeva in un’epoca che pensavamo, nei paesi democratici, ormai lontana; si creerebbe un precedente, al quale non vogliamo rassegnarci e che ricorderebbe il tempo in cui si volevano bruciare – per non parlare che dei più grandi – i libri di Jean Genet o di Pierre Guyotat”.

Il delicatissimo caso tuttora in corso,  tira in ballo la libertà della letteratura che riconosce solo le sue leggi: l’invenzione e la  manipolazione della realtà, qualunque sia, fino a tramutarla in Verbo. Precipitato nella trama da resa dei conti, costretto a subire la mossa più maligna che esista per uno scrittore nel tempo storico, la censura, Jauffret ha fatto una contromossa alla sua maniera. In Francia è un autore molto popolare e questa vicenda che lo riguarda ha diviso l’opinione pubblica. In Italia,invece, finora era pressoché sconosciuto e non era mai stato edito, eccezion fatta per una raccolta di racconti, ‘Giochi di spiaggia’ a cura degli stessi traduttori, Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio, pubblicata nel 2004 dalla piccola casa editrice napoletana Dante & Descartes.  Dunque, alla seconda edizione francese del romanzo, Régis ha aggiunto un preambolo che vale come manifesto di poetica e professione di fede nella letteratura. Jauffret scrive: “In questo libro mi addentro in un crimine. Lo esamino, lo fotografo, lo filo, lo registro, lo mixo, lo falsifico. Sono un romanziere. Mento come un assassino. Non rispetto né i vivi né i morti né la loro reputazione né la morale. Non venitemi a parlare di morale. Scritta da borghesi conformisti che sognano medaglie e castelli, la letteratura è senza scrupoli. Avanza, distrugge. È il suo vanto, è il suo onore, questo suo modo di non lasciarsi dietro nemmeno una minima traccia della storia di cui si è servita per costruire un oggetto minuscolo pieno di pagine, un file zeppo di byte. (…) Non esiterei un istante a sgozzarvi se voi foste una frase che mi piace, buona da piazzare in una novella esile come il mio rimorso per avervi massacrato. Sono una brava persona, potreste affidarmi il gatto, ma la scrittura è un’arma di cui mi piace servirmi tra la folla”.

Niente è reale in un libro letterario, sia pure fedelmente ispirato alla cronaca, e i personaggi “sono pupazzi imbottiti di parole, di spazi, di virgole, la sintassi è la loro pelle”. Se valesse quel che vale nel territorio inconfutabile e auto redento della Legge (le sentenze fanno giurisprudenza) allora la letteratura scagiona la letteratura.  Il libro in lingua inglese di Annie Vivanti, ’Circe’, biografia romanzata della contessa ucraina Marie Tarnowska, pubblicata nel 1912, vale come precedente di straordinaria similarità. Questa Marie Tarnowska, definita dalle cronache dell’epoca una cocotte, una maliarda, una donna vampira o serpente, fu processata al tribunale di Rialto (Venezia) come mandante dell’omicidio del masochista fidanzato e futuro marito conte Pavel Kamarowskij, posto in atto da un suo amante e da un innamorato plagiato per incassarne l’assicurazione, a coronamento di una storia di sesso estremo e sadomaso, sangue, droga, negli ambienti della Belle Epoque. La sentenza fu nel complesso mite. Maria Tarnowska, riconosciuta dal tribunale, nell’epoca che si apriva al contributo della psicoanalisi, ‘isterica e seminferma di mente’ fu condannata (coincidenza), come Cècile Brossard a otto anni e quattro mesi. Dopo due anni dal processo Annie Vivanti raccontò che la biografia gliel’avesse dettata la stessa ‘Circe’, la quale invece prima la invogliò narcisisticamente a scriverla, poi smentì di averla suggerita. Il processo ebbe tra gli spettatori D’Annunzio, le attrici di prosa Emma Grammatica e Gabrielle Rejan, che studiavano persino le pose da rifare in scena. Fu realizzato dall’ ‘affare dei russi’ un romanzo a dispense. Nel 1946 prima (sceneggiatura di Michelangelo Antonioni) e nel 1960 poi, Luchino Visconti voleva realizzare un film ma non se ne fece nulla (fu realizzato invece a puntate per la tv nel 1977 dal regista Giuseppe Fina, tra gli interpreti Umberto Orsini). Il rimando evidenzia che il fondamento dell’arte sta nel nutrirsi con cinica partecipazione creativa della vita e delle storie che offre travasandole in immagini, senza badare a moralismi.

Talvolta al racconto di un’assassina si può dare fiducia perché succede che le vittime non sono più innocenti dei loro assassini:  “L’ho liberato da un’esistenza nera e brillante come la lacca della sua bara. Un’esistenza da predatore, segnata da un cinismo che riempiva di ammirazione la stampa economica, sempre pronta a genuflettersi davanti ai farabutti (…)”, dice la protagonista del romanzo. Quest’assassina è così candida e schietta nel resoconto dei fatti che nessuno le crede, viene sempre scambiata per una teatrante. Non c’è nessuna morale da estrarre dalla vicenda, né un’ultima parola ordinaria dirada l’oscurità. La scrittura non rassicura, è lama tagliente, bisturi che va in profondità e rivela la commistione tra la volubilità del caso e quella della psiche di due esseri imprigionati in una relazione morbosa. Tutto è un’illusione o un gioco delle parti che si consuma nel giro di un certo numero di sequenze. Oppure la verità, se c’è, se ci dovesse essere, “riaffiora nitida come un dipinto di Bosch”, ed è un campo intricato di simboli”. L’assassina è più vittima della sua vittima. Ha cercato rifugio dalla solitudine in una relazione estrema a cui ha dato il nome di amore. “Mi abbandonavo, sognavo. Mi concedevo persino la gioia di credere che mi apparteneva”. Fino a  che ogni labilità si è estinta e non è rimasto spazio che per l’estremo castigo.

Titolo: Il banchiere
Autore: Jauffret Régis
Editore: Barbès
Dati: 2011, 200 pp., 13400 €

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