Ode to the Traveler – il ritorno di Mark Lanegan

“With piranha teeth/i’ve been dreaming of you” è il verso con cui si apre il nuovo disco di Mark Lanegan, Blues Funeral (4AD, 2012),  atteso dai fan di vecchia data come me per otto lunghi anni, da quando il vocalist di Ellensburg aveva dato alle stampe Bubblegum, album che segnava una svolta nella sua carriera, in cui abbandonava i paesaggi più bucolici per spingersi, anche lui come il suo “gemello” Greg Dulli, a cantare le città e le sue storie nere.

E questo primo verso, con cui inizia la poderosa Gravedigger’s song – di chiara marca Quotsa – insieme al riff sporco e incalzante che lo accompagna,  ci scaraventa, noi ascoltatori, nel cuore dell’universo di Lanegan, dentro quel mondo in perenne contrasto tra tenebre e dolcezza. Questo primo pezzo, ex abrupto, spazza via anni di collaborazione, un po’ leziosa a mio avviso, con Isobel Campbel per restituirci il bluesman tormentato e romantico che avevamo imparato ad amare. Niente di più vero ma, allo stesso tempo, niente di più falso. Perché se Blues Funeral – anche il titolo rimanda al Lanegan delle origini, quello di Whiskey for the Holy Ghost – segna il ritorno di Lanegan lì dove lo avevamo lasciato, allo stesso tempo questo disco propone delle aperture che non ci aspettavamo.

https://player.soundcloud.com/player.swf?url=http%3A%2F%2Fapi.soundcloud.com%2Ftracks%2F35812149 Mark Lanegan Band – Harborview Hospital by Marco Collins

Mentre scorro la tracklist, l’occhio non può fare a meno di cadere sul titolo della sesta traccia, Ode to sad disco, e già te lo chiedi che cosa possa significare, cosa si nasconda dietro un titolo così. Poi quando la canzone inizia ti rendi conto che effettivamente sì, non può essere diversamente, perché quella che stai ascoltando è davvero un’ode alla musica disco triste, con tanto di drum machine e suoni sintetici: gli anni novanta del dancefloor ripresi e cantati da una delle migliori voci del secolo. Ma non si tratta dell’unico episodio che si discosta dal seminato (o meglio, dall’immaginario, perché anche Bubblegum era molto distante, come pezzi, da Field Songs), no, c’è anche il delicato synth pop di Harborview Hospital, uno dei pezzi più toccanti della serie; e ancora il glam di Quiver Syndrome, così come lo stoner rock di Riot in my house. Tutta roba con cui Lanegan dimostra di sapersi destreggiare più che degnamente.

Ma è quando canta il blues che Mark ci fa sentire a casa. La voce è in ottima forma, la grana, catramosa e densa, sembra provenire dal cuore delle cose, sembra possederle, rendendo le canzoni delle sculture sonore, granitiche e ancestrali: Mark è un predicatore che ci illustra la sua personale via di espiazione dai peccati, fatta di sofferenza, alcool e solitudine. Tra lo spiritual di St Luis Elegy, le dark ballad Phantsmagoria Blues e Deep black vanishing train, fino ai due blues con la b maiuscola, Leviathan e il possente Bleeding muddy waters, Lanegan si riporta in acque a lui amiche, rispolverando l’argenteria, conservata al meglio per l’occasione. Ma il finale del disco stupisce ancora, interamente dedicato alla psichedelia grazie ai sette minuti di Tiny grain of youth, che, come tentacoli di mostri marini, avviluppano e trascinano verso un fondo buio, dove il confine fra le cose e le sensazioni si fa sfumato e confuso.

Lanegan ancora una volta compone un disco mutevole, il più vario della sua lunga produzione, dimostrando di essere in perenne movimento, di non essersi fermato a ciò che sapeva fare con eccellenza, ma di essersi spinto ancora in là, “alla sua età”,  mettendosi in discussione, facendo, insomma, quello che i veri artisti si sentono chiamati a fare: ricercare, instancabilmente . E del resto se si getta lo sguardo indietro, a tutta la produzione precedente, questo afflato lo si può facilmente riscontrare: la carriera di Lanegan è quella di un cowboy solitario che vaga prima in cerca delle proprie radici e poi, una volta ritrovate, spingersi in territori lontani, da solo o in compagnia di qualche compagno, come le svariate collaborazioni (molto presenti anche in questo disco: Josh Homme, Greg Dulli, Jack Irons) stanno a dimostrare. D’altronde l’attitudine al viaggio Mark la cantava fin dai tempi degli Screaming Trees, andando bene o male a predire il suo destino di tormentato cavaliere:

I’m half way here, I’m half way there /Oh Lord I been the traveler, yeah

E yeah sia Mark, yeah sia.