Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato

L’errore più vecchio dei gazzettieri cinematografici è quello di paragonare il film al romanzo di partenza. Ma è una tentazione a cui si fa fatica resistere davanti al film di John Hillcoat; forse per la reverenza che il regista australiano ha dimostrato di avere nei confronti dello scrittore Cormac McCarthy, o forse perchè il romanzo La strada, Premio Pulitzer nel 2007, è già collocabile nel classico.

La difficoltà maggiore nell’amare un film del genere risiede proprio nel fatto di aver letto prima il libro. Autori come Terrence Malick o Clint Eastwood avrebbero potuto accostarsi a uno scrittore simile, e magari musicisti come Will Oldham o Howe Gelb avrebbero potuto comporre la colonna sonora dell’ipotetico adattamento, in sostituzione di Nick Cave che, con Warren Ellis, violinista dei Dirty Three oltre che membro dei Bad Seeds, firma le musiche del film, plagiando, parzialmente, Spiegel im Spiegel di Arvo Part. [ascolta un breve estratto]

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Un uomo, un bambino, entrambi senza nome, attraversano un mondo distrutto, da un qualche, imprecisato, disastro, naturale o umano, frammentato, come la cartina che padre e figlio ricompongono ogni volta per trovare una traccia della strada. Nemmeno le macerie sono quel simulacro del tempo. Tutto è cenere e lo sguardo compie un falso movimento. Con loro una pistola con due soli colpi in canna, ma l’arma in questione non serve come difesa dai predatori sopravvissuti, ridotti al cannibalismo, ma per porre fine alle loro stesse vite nel caso la situazione lo richiedesse. E, come insegna Anton Cechov, se all’inizio di un dramma c’è un’arma, prima della fine del dramma quell’arma sparerà.

Saltano subito all’occhio immagini impregnate di riferimenti mitologici: la Bibbia innanzitutto, presente con il testo dell’Apocalisse e il mito di Abramo e Isacco che viene costantemente evocato e ribaltato. Mentre la fatica dell’uomo, l’insensatezza della sua ricerca di salvezza, ricorda il contrappasso che Zeus ha imposto a Sisifo. E la trama si fa sineddoche, metafora universale della condizione umana.

L’immagine del padre e del figlio che attraversano paesaggi desolati richiama invece archetipi iconografici tra i più ricorrenti nella cultura popolare: in Lone Wolf and Cub (Kozure Ōkami), manga di Kazuo Koike e Goseki Kojima, un ronin, samurai senza padrone, si muove in compagnia del suo bambino attraverso il Giappone del 17° secolo (quando Tokyo si chiamava Edo); la stessa vicenda è stata riproposta in stile noir/gangster nella graphic novel Road To Perdition scritta da Max Allan Collins e disegnata da Richard Piers Rayner, fumetto trasposto al cinema da Sam Mandes (in Italia è arrivato col titolo di Era mio padre).

Purtroppo The Road manca dello struggimento emotivo che lo stile di McCarthy condensava nelle sue parole e la capacità di rendersi universale nella sua sintesi; a soprattutto non riesce ad emettere l’urlo tracotante contro Dio e la sua assenza, che era il romanzo; tanto meno riesce a sollevarsi dai limiti del “genere”, come solo Andrej Tarkovskij è riuscito a fare in Stalker e Solaris. Rimane l’ennesimo film all’interno del filone apocalittico dove la fantascienza si mescola con l’horror, ingabbiato in quei topoi che in McCarthy erano solo pretesto per poter esprimere tutta la sua ubris, ma qui costituiscono l’impalcatura di un film relegato nella sua funzione illustrativa e riduttiva del romanzo. Non si emancipa da esso, eppure, con tutti i suoi difetti e sbavature, si distingue dal compitino perfetto, cinico e kubrickiano operata dai fratelli Coen con Non è un paese per vecchi, anch’esso da un romanzo di McCarthy. Possiede una bellezza pudica che risiede proprio nell’abilità figurativa con cui riesce a fotografare quelle “notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo” (Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, 2007, p. 3, traduzione di Martina Testa).

The Road – USA, 2009
di John Hillcoat
con Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee, Charlize Theron, Robert Duvall
Videa – CDE – 111 min.

nelle sale dal 28 maggio 2010