Quando lo vidi non c’era

Agnetti a Il luogo di Gauss, Milano FOTO Ugo MulasI decenni rivoluzionari degli anni ’60 e ’70, in Italia hanno visto l’affermazione quasi esclusiva dell’Arte Povera, tanto che tutti quegli artisti di indubbio valore che decisero di non prendere parte al movimento promosso dal critico Germano Celant, ancora oggi vengono ingiustamente etichettati come degli outsider. Poi ci si mettono le ricorrenze, gli anniversari di morte, come era stato per il pittore e scultore Aldo Mondino un paio d’anni fa, o più semplicemente e ammirevolmente l’intraprendenza di un centro d’arte contemporanea di provincia – e quindi, forse, più libero dai diktat del mercato dell’eterno ritorno dell’uguale –, come il CIAC di Foligno, a rendere il giusto omaggio a un artista che in soli quindici anni di carriera ha scritto la grammatica di un linguaggio completamente nuovo, almeno in ambito nazionale.

Agnetti e Scheggi con l'opera Il trono, 1979 FOTO Fabio Donato NapoliVincenzo Agnetti (Milano, 1926 – Milano, 1981), dopo aver vissuto da pittore l’esperienza innovatrice della stagione informale milanese guidata dalla rivista Azimuth, assieme, tra gli altri, a Castellani e Manzoni, decise di abbandonare il pennello e la tela, avvertendo molto presto una naturale insofferenza nei confronti degli stereotipi a cui quella pratica artistica fu presto soggetta. Cionondimeno, l’arte informale già conteneva in sé il germe di ciò che Agnetti avrebbe fatto giungere presto a maturazione. L’auto-esilio sulle coste frastagliate del Nord Europa, novello Wittgenstein anti-logico e anti-linguistico, aiutò l’artista a respirare l’aria innovatrice che giungeva d’oltre oceano, dove Joseph Kosuth aveva da poco dato il via alla ricerca concettuale.

Vincenzo Agnetti, Libro dimenticato a memoriaTornato in Italia, Agnetti fu uno dei pochi a farsi portabandiera del concettualismo artistico, cogliendone tutte le potenzialità teoriche e filosofiche e comunque arricchendolo di un pessimismo esistenzialista che non apparteneva affatto alla matrice statunitense. Fin dalla sua prima vera opera concettuale, l’antiromanzo Obsoleto, terminato nel 1965 ma pubblicato solo tre anni più tardi, Vincenzo Agnetti intrise la sua produzione di un afflato nietzschiano, appropriandosi del motto «Per ogni agire ci vuole un oblio», dalle Considerazioni Inattuali del grande filosofo tedesco. Emblematico, in questo senso, è Il libro dimenticato a memoria (1970), ma tutte le sue opere scavano nei meandri della logica e del linguaggio per farne affiorare le aporie, come accade per Quando mi vidi non c’ero (1971) e Profezia (1970).

Agnetti con la Macchina Drogata FOTO Ugo MulasLa ricca retrospettiva del CIAC di Foligno raccoglie queste e altre cinquanta opere che, come scrive il critico e curatore della mostra Bruno Corà: «sono luoghi vivi dell’immaginario [in cui] il vuoto, il silenzio e l’oblio [sono] sempre latenti […] Dimenticare, perdere, cancellare sono infiniti coniugati alle forme di volta in volta da lui concepite. E sono tutti predicati della memoria e del tempo, attore primario della drammaturgia agnettiana». L’OperAzione Concettuale, che proseguirà fino al 9 settembre, è una mostra che si pone l’illogico scopo di ricordare un maestro indiscusso dell’oblio. Vincenzo Agnetti ne sarebbe andato molto fiero.

 

Fino al 9 settembre 2012
CIAC (Centro Italiano d’Arte Contemporanea)
Via del Campanile 13, Foligno
www.centroitalianoartecontemporanea.com